A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

giovedì 2 aprile 2015

Credenti e non credenti nella società globale. Intervista a Vannino Chiti

di Simone Siliani

L'attualità degli ultimi mesi ha prepotentemente posto all'attenzione mondiale gli sconvolgimenti in corso nel mondo islamico, dopo quella che appare oggi la breve parentesi di speranza delle Primavere arabe. Sconvolgimenti di cui l'Europa e l'Italia non possono disinteressarsi, non foss'altro perché quelle tensioni non sono "confinabili", come purtroppo dimostrano gli eventi di questi primi mesi del 2015, a partire dalla strage della redazione di Charlie Hebdo.
L'Europa, tuttavia, stenta a muoversi come un soggetto politico unitario, pervasa com'è dai populismi e dalle tensioni economiche e sociali che hanno seguito la crisi finanziaria del 2008.
In questo contesto le forze europee di sinistra sono chiamate a misurarsi con l'Islam e più in generale con le religioni, nell'ottica del dialogo, per costruire società improntate ai valori della democrazia, della civiltà, della solidarietà, dei diritti dei popoli e della persona.
Di tutto questo Simone Siliani ha discusso, per Ciclostilato in proprio, con Vannino Chiti, avendo come spunto il suo ultimo libro “Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale”, pubblicato nell'aprile del 2014, un anno dopo l'ascesa del cardinale Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro.


Siliani: un libro, questo “Tra terra e cielo”, che tocca questioni di una scottante attualità lette però da una prospettiva tutt'altro che cronachistica; direi piuttosto da “pensieri lunghi”; una ricerca di rinnovamento dei fondamenti della società moderna. La crisi della democrazia moderna, il rinnovamento nella Chiesa portato da Papa Francesco, la sfida della contemporaneità per le religioni, un nuovo fondamento per l'Europa, il fondamentalismo islamico e religioso: come convivono questi pensieri lunghi con una politica dagli orizzonti sempre più limitati e incapace sembra di analisi più impegnative dei 140 caratteri di un tweet?
Chiti: avverto questo contrasto e, per quanto riguarda la mia dimensione personale, è anche un modo per trovare un equilibrio. Una delle questioni più serie che oggi sento è il fatto che non vi è più una sede di discussione nei partiti politici italiani. Oggi l'unico partito in campo è di fatto il Partito Democratico. Ma non esiste una sede di discussione. Tra l'altro, la scelta che il Segretario del PD coincida con il Presidente del Consiglio dei Ministri fa sì che a volte vi sia un corto circuito, per cui una posizione che in un partito può essere sostenuta per stimolare una riflessione, può diventare immediatamente antagonista a quella del Governo. Quindi, nei gruppi parlamentari o nel partito, se si discute, lo si fa su temi immediatamente legati all'azione del Governo. Non si discute della crisi in Libia, di quello che succede sulla riva sud del Mediterraneo, del conflitto Ucraina-Russia, di temi di fondo. E purtroppo, a differenza di altri Paesi, non ci sono neppure fondazioni in cui si possa discutere. Per cui sia le divisioni che le convergenze non è dato sapere su cosa si determinino. L'ideale sarebbe sempre partire da una fotografia della situazione di un tema e poi rispetto a quella ognuno può dare risposte diverse. Oggi questo non avviene. A me colpisce molto (e nel libro lo cito) che l'ONU abbia fatto lavorare 200 scienziati per alcuni anni per fare un check up del pianeta; la diagnosi che ne esce dice che, nella migliore delle ipotesi, vi sarà in questo secolo un aumento della temperatura globale di 2°C, che non comporta l'estinzione dell'umanità sulla terra come sarebbe se l'aumento fosse di 4°C, ma ci saranno – e lo vediamo già oggi – molti eventi estremi. Vi sono 10-15 anni di tempo per evitare che le ferite diventino irreversibili. Ecco, di questi temi che sono di stringente attualità, non si discute né in sede politica, né nel mondo della cultura, né sui giornali. La ristrettezza della dimensione politica spiega anche perché tanti cittadini non sentono che attraverso i partiti politici possa valer la pena impegnarsi.
Siliani: in questi giorni la crisi libica sembra ricordarci un tema che tu affronti ampiamente nel libro: quanto la mancanza di una strategia da parte dell'Occidente e dell'Europa in particolare che avesse saputo comprendere e affrontare la profondità degli sconvolgimenti in corso nel mondo arabo durante la prima fase delle rivoluzioni arabe, abbia permesso ai movimenti estremisti di schiacciare ed emarginare quelle parti genuinamente laiche e moderne dei movimenti protagonisti della Primavera. Oggi il campo dello scontro nel mondo arabo sembra interamente occupato da un lato dai fondamentalisti che ritengono che lo Stato debba fondarsi sulla Shari’ah e negano la possibilità di conciliazione fra Islam e democrazia e dall'altro da politici e militari che per quanto ci appaiano più laici, nondimeno nella loro concreta azione di governo negano i principi democratici e di laicità su cui si fonda la modernità. E l'Europa assiste più o meno immobile a questo scontro sanguinoso, di cui fanno le spese le popolazioni inermi; preoccupata semmai, ipocritamente, sui flussi di rifugiati. Cosa dovrebbe o potrebbe fare ora l'Europa o l'Occidente?
Il Cairo, 11 febbraio 2011: i festeggiamenti in piazza Tahrir
dopo l'annuncio delle dimissioni di Hosni Mubarak.
Chiti: la questione preliminare riguarda la cultura politica: ci vengono presentati gli scontri ed i conflitti in atto come una moderna guerra, combattuta però con armi di distruzione di massa, tra Cristianesimo e Islam: lo scontro di civiltà. I cristiani sono perseguitati in varie parti del mondo: il fatto che si cerchi di espellerli dal Medio Oriente è gravissimo e deve essere impedito per il futuro stesso del Medio Oriente. Ma, muoiono assi di più i musulmani. Basti pensare alla Nigeria o a tutta la riva sud del Mediterraneo. Lo scontro è, invece, fra democrazia e terrorismo, tra fanatismo e cultura del dialogo, tra estremismi e tolleranza. Questo deve essere affermato con forza, perché fra i fautori del dialogo vi sono anche musulmani e Paesi islamici. Le Primavere arabe oggi possiamo dire che ci hanno deluso, ma sulla base di un percorso storico guardando a come questa evoluzione è avvenuta in Europa, le questioni sono ben diverse. Il Marocco, in anticipo sulle Primavere arabe, ha compiuto una riforma costituzionale impegnativa e seria. La Tunisia ha fatto una riforma costituzionale e ha visto l'opposizione prendere il posto della maggioranza. Penso anche all'Algeria e alla Giordania. Quindi vi sono processi interessanti in corso. Cosa può fare l'Europa? Io penso che l'Unione Europea non dovrebbe avere 28 politiche estere e di sicurezza, bensì una sola e sentire il Mediterraneo come la questione principale, sviluppando un'azione di cooperazione e di dialogo, investendo in questa direzione. Se invece, come in Libia, si interviene bombardando, sistemando alcuni interessi particolari e poi ci si ritira lasciando il vuoto, vuol dire che non ci si rende conto neppure di che tipo di Paese sia la Libia: non è lo Stato nazione che conosciamo, bensì un insieme di tribù, che devono coesistere, avere un loro percorso per costruire l'unità del Paese. Invece, con l'intervento realizzato, corriamo davvero il rischio che la Libia diventi come la Somalia, un Paese in preda agli opposti estremismi, ai fanatismi. Analogamente in Siria: per poco alla grave guerra civile in corso, non si aggiungeva un intervento esterno ancora più distruttivo. C'è stato il voto del Parlamento britannico che l'ha impedito, insieme all'intervento di Papa Francesco. Io considero importante quello che sta facendo l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, quell'insieme di delegazioni parlamentari di tutto il continente (ad esclusione della Bielorussia per la sua profonda carenza di standard democratici), che ha cambiato il proprio statuto - che prevedeva che avrebbe dovuto occuparsi solo della costruzione della democrazia, dei diritti umani e dell'uguaglianza di genere nella sola Europa - per estenderlo anche alla riva sud del Mediterraneo, stabilendo la possibilità di un partenariato istituzionale fra i Parlamenti di quell'area in cui si stabiliscono dei precisi obiettivi. Fra questi, in primo luogo, l'assenza della pena di morte negli ordinamenti come condizione minima per stabilire il partenariato; in secondo luogo l'abolizione della tortura; e poi l'obiettivo del rafforzamento delle autonomie locali, della società civile, del miglioramento dell'efficienza del Parlamento, la garanzia della libertà di stampa e del voto. Questa è la strada da percorrere. Era la direzione indicata, del resto, da Giorgio La Pira: i gemellaggi fra città e regioni con queste zone del Mediterraneo. A volte, in queste aree, la presenza di uno Stato europeo o dell'Unione Europea può determinare, magari anche pretestuosamente, delle riserve. L'azione di un potere regionale o locale che collabora e stabilisce rapporti positivi, può invece essere di grande aiuto. Analogamente per le Università e le imprese. Occorre però muoversi in questa direzione: una sola politica estera e di sicurezza europea, la scelta della cooperazione, il ruolo della città e delle regioni.
Siliani: alla fine del tuo libro prospetti un Patto per il Mediterraneo che chiama in causa, non solo l'Islam moderno, ma soprattutto l'Europa. Ma mentre da un lato l'Unione Europea dovrebbe creare ponti con la riva sud (anche per rafforzare le parti più aperte e moderne dell'Islam), dall'altro c'è il tema della difesa degli inermi, dei civili, anche dei siti storici patrimonio dell'umanità. Qui c'è un tema che la sinistra ha spesso evitato: l'Unione Europea si costruisce certo con l'unione monetaria e con le regole finanziarie, ma alla fine se non ha una sua proiezione internazionale e di sicurezza, e quindi la possibilità di presentarsi non con la faccia della Nato e quindi con la delega agli USA su questo terreno, per garantire che i suoi vicini siano protetti e in pace, allora tutta la costruzione europea rischia di crollare miseramente. Come si affronta il problema della difesa comune, non dell'Europa-fortezza ma del bacino euromediterraneo?
Chiti: indubbiamente vi è una sottovalutazione del tema mediterraneo: quando se ne parla spesso con interlocutori del centro e del nord dell'Europa, esso viene considerato come uno dei tanti mari. Quando ero presidente della Regione Toscana e della Conferenza delle Regioni Periferiche e Marittime d'Europa mi scontravo spesso con questa scarsa consapevolezza: il Mediterraneo è qualcosa di diverso dal Baltico o dal Mar del Nord e non dipende dall'ampiezza o dalla sua profondità, ma da quanti popoli vi si affacciano (oltre 400 milioni di persone nella riva sud) e il contatto fra sviluppo e sottosviluppo, fra le culture che hanno costituito l'Europa. Quando penso all'Unione Europea, mi viene in mente subito quali potenzialità abbia la politica, perché la costruzione dell'Unione Europea, nello spazio di una-due generazioni, ha qualcosa di straordinario se pensiamo ai decenni di pace che ha garantito in un continente dove hanno avuto origine due guerre mondiali a distanza di venti anni l'una dall'altra. Tanto più straordinario se pensiamo ai progressi fatti nel campo dei diritti umani all'interno dell'Unione. La sua grandezza è stata anche questa e non soltanto nelle sue origini: l'aver saputo aprirsi ai Paesi dell'Est che venivano da regimi che per decenni avevano oppresso i propri popoli e poi aver dato uno sbocco di pace ai Paesi dei Balcani devastati da una drammatica e dimenticata guerra recente. Però oggi io vedo l'Unione Europea su un crinale: o fa un passo nella direzione giusta che è quella di una democrazia sovranazionale, o rischia di arretrare. Non è possibile rimanere indefinitamente in questa situazione: sono aumentate le competenze e le responsabilità dell'Unione Europea, contemporaneamente si è esteso il metodo intergovernativo, al posto di quello comunitario, per assumere le decisioni.
Da sinistra: il Presidente della Bielorussia Alexander Lukashenko,
il Presidente della Russia Vladimir Putin,

la Cancelliera della Germania Angela Merkel,
il Presidente della Francia Francois Hollande,

ed il Presidente dell'Ucraina Petro Poroshenko,
durante i colloqui di pace a Minsk (11 febbraio 2015).
Assistiamo ad una sorta di ri-nazionalizzazione delle competenze europee, per cui si devono mettere d'accordo 28 governi degli Stati membri (e le decisioni, anche quando fossero giuste, diventano troppo lente); e poi il peso di questi Stati non è derivato dai meccanismi della democrazia, del voto dei cittadini, bensì dalla forza dei singoli governi. Così che a trattare con Vladimir Putin per evitare la guerra in Ucraina, non ci va l'Alto Rappresentate della Politica estera e di Sicurezza dell'UE, Federica Mogherini, bensì la Cancelliera della Repubblica Federale Tedesca e il Presidente francese. In questi anni di crisi si è rafforzata la coesione economica-finanziaria, non in termini di solidarietà; ma le misure che sono state adottate fanno sì che i bilanci e gli investimenti degli Stati siano molto più controllati e omogenei. Noi continuiamo, alternativamente ogni anno iniziando dal Senato o dalla Camera, a discutere della Legge Finanziaria, della Legge di Stabilità, ma in realtà mentre i Parlamenti degli Stati membri iniziano la prima lettura, essa è all'esame dell'Unione Europea che sentenzia se si è dentro o fuori dal Patto di Stabilità e Crescita. Questo non è un fatto necessariamente negativo, anzi; ma a condizione che non sia un qualcosa di staccato dal percorso di nascita di una compiuta democrazia sovranazionale. Se così avviene, allora questo meccanismo toglie sovranità ai Parlamenti degli Stati e non la ridisloca in modo corretto. Se invece questo diventa (come la moneta unica) un momento che fa nascere nell'arco massimo di un decennio una democrazia sovranazionale, per cui l'Unione Europea quando decide della sua politica estera o di sicurezza o di macroeconomia o ancora di ambiente, lo fa attraverso una Commissione che è espressione di un governo federale dell'Europa, allora si inserisce in un processo democratico positivo. Altrimenti, dal crinale si rischia di cadere. C'è un piccolo segnale positivo che va consolidato: alle ultime elezioni europee i partiti hanno presentato un candidato alla presidenza della Commissione. Se vi sarà una unica legge per tutti gli Stati europei per eleggere i parlamentari europei, se si consoliderà il fatto che chi vince le elezioni esprime con il candidato che ha indicato il Presidente della Commissione e la stessa diventa non ciò che sembra oggi, cioè un organismo tecnico al servizio del Consiglio Europeo (cioè dei capi di Stato e di Governo), bensì il governo federale (o se vogliamo confederale, non importa; una volta Helmut Kohl in una bella intervista ebbe a dire che “se cercate nei libri di diritto costituzionale la natura dell'Europa non la trovate perché è veramente una costruzione specifica”); se avviene tutto questo e la Commissione sarà davvero il governo dell'Europa ed il Consiglio Europeo diventerà una sorta di Senato che si esprime sulle grandi scelte di adesione o finanziarie, allora ci incammineremo nella direzione giusta. E' vero, la sinistra (e parlo di quello che è il Partito Socialista Europeo, nelle sue varie componenti), non si pone con la forza necessaria l'obiettivo di una democrazia sovranazionale europea.
Siliani: Islam e democrazia, forse una delle parti più intense e impegnate del tuo libro. Da un lato affronti i nodi di maggiore attualità. Se pensiamo che soltanto ieri Boko Haram ha stretto un'alleanza con il Califfato dell'Isis ed il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha tenuto un contrastato discorso al Congresso degli Stati Uniti in cui ha stigmatizzato la politica di Barack Obama dialogante nei confronti dell'Iran e della svolta moderata del suo presidente Hassan Rouhani. Tutto sembra andare verso una polarizzazione. Ma nel tuo libro vedi anche i germi o comunque la possibilità di un altro Islam, della liberazione, del pluralismo, rispettoso dei diritti delle donne e lo intravedi in alcuni movimenti di base (i 10 teologi islamici del Movimento Nazionale per il Cambiamento in Sudan, i movimenti della teologia della liberazione islamica, le Sorelle Musulmane). Che poi interroga anche noi: nel libro solleciti una riflessione profonda sulla qualità della democrazia. Ma come affrontare lo snodo strategico del rapporto fra Islam e democrazia? Chi dovrebbero essere i protagonisti di questa nuova stagione?
Da sinistra: il Presidente israeliano Shimon Peres,
il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, Papa Francesco,
il Presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas),
nei Giardini Vaticani per la storica invocazione comune di pace (8 giugno 2014).
Chiti: mi sono imbattuto in letture e ricerche, due anni fa, su due esperienze che mi hanno molto impressionato. In primo lugo nella Teologia Islamica della Liberazione (ne ho parlato soprattutto nel libro precedente, “Religioni e politica”) che trova, non casualmente ma volutamente, un riferimento nella Teologia della Liberazione cattolica dell'America Latina; nel senso che l'hanno voluta chiamare così per segnare la necessità di un rapporto fra religione e politica, tra contributo della religione e liberazione delle persone. Ed è per questo che essa attribuisce una grande importanza (e dovrebbe farlo ancor di più l'Europa) alla costruzione della pace fra Israele e Palestina, perché se questo non avviene sarà difficile che nel mondo arabo possano prevalere le componenti che vogliono misurarsi positivamente con l'Occidente e costruire esperienze di pluralismo. Tra l'altro qui il tempo è scaduto. Nell'ultimo viaggio che ho fatto nel 2012 come Vice Presidente del Senato in Israele e Palestina, mi hanno colpito due fatti. Il primo l'incontro con un esponente politico che fu incaricato da Bill Clinton di preparare una carta geografica sui possibili confini dello Stato di Palestina e di Gerusalemme: lui mi mostrò come, mentre ai tempi di Clinton questo era possibile e relativamente semplice, ora lo Stato Palestinese con gli insediamenti dei coloni israeliani è praticamente impossibile, senza alcuna possibilità di continuità territoriale. L’altro è stato il colloquio con Nehmer Ammad, che ora è consigliere di Abu Mazen e che è stato a lungo ambasciatore dell'OLP in Italia, che mi ha detto che in una componente crescente dei palestinesi c'è oggi la rinuncia alla possibilità di vivere in uno Stato arabo palestinese: tra 10-15 anni Israele sarà una nazione al cui interno vive una maggioranza arabo-palestinese che ha diritti di serie B rispetto alla minoranza ebraica. Il rischio è che questo diventi un moderno Sud Africa. Loro mi chiedevano come può il mondo del XXI secolo accettare un nuovo Sud Africa. Mentre la vicenda dell'Iran, invece, sembra si stia evolvendo in senso positivo, dove si dimostra che la trattativa, la diplomazia e l'intesa risolvono problemi che le guerre non sono in grado di risolvere.
Ma ritornando all'Islam, l'altro aspetto che mi ha particolarmente colpito è la presenza reale nell'Islam – magari non nella dottrina religiosa – di un pluralismo, ma anche di realtà come quelle dei giovani e soprattutto delle donne, che sono di grande interesse. Il movimento che noi chiamiamo femminismo, mentre loro lo chiamano (volutamente per distinguerlo da quello Occidentale) movimento delle donne è davvero notevole, perché contesta una lettura maschilista dell'Islam e in particolare del Corano, fatta da ulema conservatori, che è servita a costruire delle società in cui religione, politica e società sono strettamente intrecciate, in cui vi è una prevalenza dell'interpretazione religiosa sulla legge e sui costumi. Rileggendo, invece, in modo diverso il Corano, loro ritengono di ritrovarci elementi per una liberazione della donna e per una liberazione della società. Io penso che questo sia da guardare con grande interesse, senza paternalismo saccente, ed occorre anche puntarci perché queste società non si apriranno con interventi militari esterni, bensì se vi è un dialogo e un confronto con l'Occidente, se i diritti umani non avranno aggettivi e saranno un punto di riferimento ovunque. Certo, l’Islam deve fare dei passi avanti in questo tipo di interpretazione nei rapporti con quella che noi chiamiamo modernità. Un cittadino, che abbia una fede religiosa o che sia ateo, islamico, cristiano, ebraico, buddista, ecc., che nel corso della sua vita cambi credo religioso, non può vedere per questo mutati i propri rapporti con lo Stato: questo è il punto di fondo. A ciò può contribuire quello che avviene nei nostri Paesi. Io penso che un elemento importante di quello che sarà l'evoluzione dell'Islam si gioca qui in Occidente, dove non c'è un’invasione islamica: ci sono cittadini italiani ed europei di religione islamica che, se vivono la loro fede in un rapporto che non li discrimina e che accetta elementi di pluralismo e se le Istituzioni si relazionano con tutti in quanto cittadini nello stesso modo, ci consegna uno scenario importante. Poi il mondo è complesso: io sono stato l'unico europeo in Arabia Saudita per il G20 dei Parlamenti. In Arabia Saudita ci sono circa 2 milioni di cattolici che vivono in condizioni di povertà; al contrario che da noi dove gli islamici sono poveri, lì ci sono filippini e di altri Paesi del sud-est asiatico, di religione cattolica o cristiana, poveri. Parlando con il nostro ambasciatore e con le autorità dell'Arabia Saudita, mi veniva riferito che a volte le funzioni religiose cristiane vengono impedite, altre volte avvengono in modo semi-clandestino. La stessa Arabia Saudita, il Paese della massima contraddizione e conservazione, comincia ad avere problemi che prima non esistevano. Tanto è che il sovrano del Paese ha cambiato la sua denominazione: non più solo re dell'Arabia Saudita, ma anche custode dei luoghi sacri della Mecca e di Medina. Discutendo con loro, essi sostengono che non possono accettare in Arabia Saudita la presenza di chiese cristiane in quando custodi dei luoghi sacri della Mecca e di Medina: come fareste voi a tollerare che in Vaticano vi fossero delle moschee? Ovviamente il paragone non regge perché la Mecca e Medina sono due città, ma l'Arabia Saudita non è solo queste due città. Insomma, il mondo è davvero più complesso e penso che una delle ottiche per leggerlo sia quello di non inforcare lenti pregiudiziali e l'altro sia quello di far prevalere l'ottica dei diritti umani, che non sono qualcosa come le forme della democrazia che ognuno le può plasmare secondo tempi e storie diverse, bensì qualcosa che va rispettato e assicurato. La libertà religiosa e il rapporto fra cittadini e Stato ne sono degli aspetti fondamentali.
Siliani: tu individui, dunque, una possibile via – per quanto lunga e complessa – di modernizzazione dell'Islam che parte dal basso. Al contrario nel mondo cristiano-cattolico il movimento di riforma arriva dall'alto, attraverso Papa Francesco. Nel mettere in evidenza i tratti innovativi di questo pontificato (un Papa poco clericale, la collegialità nel governo della Chiesa, l'attenzione verso i cambiamenti nella società e all'interno della Chiesa stessa), tu però evidenzi come alcuni di questi tratti innovativi continuino l'opera di Benedetto XVI, in qualche modo dando una lettura nuova del pontificato di Ratzinger.
Chiti: sul tema dei rinnovamento, io credo che si debba considerare sia quello che si semina dal basso, ma anche l'iniziativa dei vertici. Io penso che la Chiesa cattolica e le chiese cristiane dovrebbero insistere per dare un seguito a quel primo incontro Islam-Cattolici che aveva concluso proprio Benedetto XVI in Vaticano: doveva esserci un secondo momento in un Paese arabo-islamico, ma ad oggi non è avvenuto. Penso che sia giusto spingere in questa direzione, perché in alcuni Paesi arabo-islamici (ma bisognerebbe parlare anche dell'Indonesia o dell'India, Paesi a forte componente islamica) ci potrebbe essere la tendenza a organizzare colloqui del genere, ma riservati e ristretti (che pure sono utili) per non coinvolgere l'opinione pubblica di quei Paesi. Invece questo è essenziale, anche perché per come alcuni di questi Paesi arabo-islamici vivono il rapporto tra religione, Stato e politica, quello che l'Occidente fa può essere come qualcosa voluto dal Cristianesimo. Papa Francesco segna un elemento di forte e positiva discontinuità. Da una parte la ripresa del Concilio Vaticano II con grande forza e coerenza; e dall'altro anche indicando prospettive più avanzate di quello. Se io dico, come ha fatto il Concilio, che la Chiesa ha un'opzione preferenziale per i poveri, è molto importante; ma se io dico che la Chiesa deve essere povera e dei poveri, dico qualcosa di estremamente più importante. Così come penso che l'uso di certe parole da parte del Papa abbia un significato molto forte per la profondità e la vastità di echi che possono avere: quando lui dice che l'economia di oggi, con la globalizzazione, porta a considerare le persone come uno scarto; oppure parla dell'unica idolatria del denaro; oppure del diritto ad un lavoro degno o dei temi dell'ambiente, tutto questo è di grandissimo rilievo. Tutti noi attendiamo l'Enciclica annunciata sui temi dell'ambiente. Poi questo Papa, con atti e gesti concreti, ha segnato qualcosa da cui non si potrà tornare indietro: il potere temporale è terminato, ma Francesco ha segnato uno strappo fortissimo per non essere percepito come un Capo di Stato. Così come sulla collegialità come modo di gestire la Chiesa; il valore dei Sinodi e quanto questo sia promettente nella direzione del rapporto con gli Ortodossi; la sottolineatura della lettura del Vangelo (ad ogni Angelus lo dice) e anche questo avvicina alle chiese evangeliche. Tra l'altro, come scrivo anche nel libro, Francesco ha contribuito a far finire un dibattito assurdo sulla dimensione pubblica o meno della fede religiosa, perché se nel discorso di Cagliari avesse detto “in Parlamento, sulla legge delega sul lavoro, votate questo articolo o non quest'altro”, tutti l'avremmo vissuta come un'ingerenza; invece lui ha detto “il lavoro deve essere degno, rispettare i diritti di chi lavora e deve essere sostenibile per l'ambiente”, certamente esprimendo una dimensione pubblica della fede, ma all'interno del suo proprio ambito.
L'incontro del 23 dicembre 2013 tra Papa Francesco ed il Papa emerito Benedetto XVI.
Su Benedetto XVI io penso che debba essere evidenziata una differenza netta fra la gestione della Chiesa e della Curia (che lui ha molto delegato) e quello che è stato uno sforzo di impostazione a volte teologica, altre volte semplicemente culturale, su alcuni temi che avevano bisogno di una messa a punto. Per esempio, certamente ha compiuto una svolta nel senso del rigore nei confronti della compromissione nella pedofilia di esponenti della Chiesa. Certamente, ed è l'aspetto che a me ha interessato di più, l'enciclica “Caritas in veritate” contiene alcuni aspetti importanti, di novità e di attenzione per la cultura politica, come la mutualità o l’abbandono della distinzione fra politiche sociali e politiche economiche, ma il fatto che nell'economia e nel sociale possano esserci elementi di mutualità, di reciprocità, di dono, che quindi non sono l'economia capitalistica del profitto. Certo, poi vanno sviluppati e rafforzati, e ho trovato affermazioni forse più efficaci in Papa Francesco, ma non diverse sulla lunghezza d'onda. Così come per i temi ambientali che per la prima volta vengono posti all'attenzione con un cambiamento della cultura e dell'approccio del Cristianesimo, cioè l'uomo non padrone della terra, bensì l'uomo custode della terra. E non è semplicemente una diversa formulazione dello stesso concetto; è qualcosa di profondamente diverso. In questi aspetti mi pare che ci siano elementi di continuità. Così come per il dialogo con l'Islam: un Papa che chiude il primo convegno dell'incontro cattolici-musulmani con un discorso in Vaticano, che ribadisce l'impostazione conciliare nei confronti delle religioni non cristiane, ma al tempo stesso ribadisce con forza per l'Islam e per i cattolici che la religione non può essere conquista forzosa e non può giustificare l'uso della violenza; la ragione e la religione devono impedire scivolamenti nei fondamentalismi e negli estremismi. Benedetto XVI, di cui avevo molto apprezzato quel dialogo con Jürgen Habermas quando ancora non era Papa, presenta moltissime luci e non solo ombre nel suo pontificato. E poi il grande gesto delle dimissioni: il rendersi conto che le proprie forze o la propria esperienza (ognuno è legato anche ad un tempo e non solo ad una forza fisica o mentale) non consentono di affrontare le sfide che si hanno davanti e il prenderne atto, è un gesto straordinario, senza il quale oggi non parleremmo di Papa Francesco.

Vannino Chiti, studioso del movimento cattolico, vanta una lunga esperienza politica e amministrativa. Già Sindaco di Pistoia (1982-1985), Presidente della Regione Toscana (1992-2000), Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel 2° Governo Amato (2000-2001) e Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali nel 2° Governo Prodi (2006-2008). E' stato membro della Camera dei Deputati nella XIV e XV Legislatura, nonché membro e Vicepresidente del Senato della Repubblica nella XVI Legislatura (2008-2013); attualmente è membro del Senato della Repubblica, di cui presiede la Commissione per le Politiche dell'Unione europea.
Oltre al libro "Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale" (2014), Vannino Chiti ha pubblicato per Giunti Editore anche "Nostalgia del Domani" (2006), "Laici & Cattolici" (2008), "Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo" (2011).


Per saperne di più
- Vannino Chiti: il sito internet ufficiale, la pagina personale sul sito del Senato della Repubblica
- "Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale", Giunti Editore, 2014, 192 pagine, ISBN - EAN: 9788809791909 (estratto del libro)
- discorso del Presidente del Senato della Repubblica, Pietro Grasso, in occasione della presentazione del libro di Vannino Chiti (3 luglio 2014, Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, Roma)
- audio della presentazione del libro di Vannino Chiti nell'ambito della ventesima stagione del ciclo d'incontri "Leggere per non dimenticare" (17 ottobre 2014, Biblioteca delle Oblate, Firenze), con interventi di Pier Luigi Bersani, Don Pierluigi Di Piazza, Elzir Izzedin, coordina Claudio Sardo (da Radio Radicale)
filmato di "Fedi religiose e politica per la giustizia, la pace, l'ambiente" (13 febbraio 2015, Centro di accoglienza "Ernesto Balducci", Zugliano-Udine), confronto a partire da due libri “Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale” di Vannino Chiti e “L’anima della sinistra” a cura di Claudio Sardo, con interventi di Romano Prodi, Vannino Chiti, Claudio Sardo, Izzedin Elzir e Don Pierluigi Di Piazza

Recensioni del libro di Vannino Chiti
- “Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale”, di Domenico Bilotti (Filosofia in movimento)
Il dialogo tra le religioni è indispensabile per la pace, di Claudio Sardo (L'Unità)
Il dibattito sul libro di Vannino Chiti a Firenze (17 ottobre 2014).
Da sinistra: Anna Benedetti, Pier Luigi Bersani, Vannino Chiti, Izzedir Elzir, Don Pierluigi Di Piazza, Claudio Sardo.

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