A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

domenica 29 gennaio 2017

"Una volta nella vita" film Francia 2014. Presentazione di Ferruccio Quaroni

Gli eredi della memoria nella scuola del saper imparare

presentazione di Ferruccio Quaroni



Tutti, credo, conoscete il significato della parola Olocausto e sapete cosa avvenne nei territori dominati dai nazisti fra il 1940 ed il 1945. Sei milioni di persone vennero sterminate in modo sistematico, preordinato, come in una catena di montaggio nella quale anziché creare qualcosa si sopprimevano vite umane. Uomini, donne, anziani, bambini e non solo ebrei ma appartenenti a tutte le categorie che la ideologia nazista considerava inutili o dannose per la così detta pura razza ariana.

Nel libro “Un tedesco contro Hitler” di Sebastian Haffner l’autore, sopravvissuto al nazismo in quanto “ariano”, cosa che non successe purtroppo alla sua fidanzata che era ebrea, descrive così la mentalità dei tedeschi di allora: “Ci sono dei compiti ed il primo imperativo per un tedesco è eseguirli bene. Nello svolgere bene la cosa che stiamo facendo – non importa quale, un lavoro dignitoso, un’avventura o un crimine – proviamo uno stordimento depravato ma esaltante che ci esenta da qualsiasi riflessione sul senso e sul significato di ciò che stiamo facendo”. Notate in che modo, quello che era allora un giovane tedesco addestrato al nazismo, descrive come si giunse alla pianificazione dello sterminio ed al perfetto, quasi scientifico, funzionamento delle camere a gas.

Ecco, invito a riflettere su queste parole “stordimento depravato che ci esenta da ogni riflessione sul senso ed il significato di ciò che si fa”. Lo dico perché anche oggi, poco e male, si riflette sul significato di ciò che facciamo quotidianamente: presi dalla velocità e dalla necessità del presente e dell’immediato ci si scorda spesso del senso delle cose.

Ora noi sappiamo che i tempi sono certamente molto cambiati: i tedeschi in particolare sembrano avere rielaborato positivamente il terribile dramma di quel decennio in cui una nazione che aveva prodotto Beethoven e Kant ma anche Einstein, era piombata nella barbarie di un regime produttore di morte, guerra, sterminio e devastazione.

Oggi però il ragionamento andrebbe esteso anche ad altro: non possiamo limitarci a celebrare questa Giornata commuovendoci ed inorridendo di fronte alle immagini ed al ricordo di fatti comunque lontani e che ormai pochi possono ricordare e narrare per averli vissuti direttamente.

Rischieremmo di isolare quei fatti in un passato solo un po’ meno lontano dalle guerre napoleoniche o da quelle del risorgimento. E ciò impedirebbe di vedere quanti e quali pericoli sono ancora presenti ed attuali.

Allora suggerisco a tutti un altro libro che si intitola “Come si diventa nazisti”, dello storico americano William Sheridan Allen, del 1965 ripubblicato da Einaudi nel 1994. Il racconto si sviluppa tra il 1928 ed il 1933 in una cittadina della Germania profonda ed è composto da tante storie quotidiane che ricordano un po’ le nostre di oggi, quelle di una comunità che si sta disgregando e che non se ne accorge.

Il libro ci fa capire che la distruzione di una comunità politica e la fine della democrazia sono sempre possibili. Che ad impedirlo non bastano le condizioni storiche diverse, il livello di sviluppo economico, le istituzioni nate in Europa dopo la guerra a difesa della democrazia o una ipotetica maggiore maturità democratica dei cittadini. 

Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi e stanno anche dentro di noi, nell’eterno conflitto tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà. 

Si tratta di un racconto corale articolato in storie diverse che confluiscono però verso l’ineluttabilità della dittatura come risposta al malessere sociale, alla disoccupazione crescente, al senso di insicurezza, al malcontento per uno stato che funziona male, al rancore verso le minoranze etniche che “rubano lavoro, soldi e potere” ai cittadini “ariani”.

E solo alla fine del libro ci si accorge come tanti fatterelli quotidiani, anche insignificanti, confluiscono però nella scelta autoritaria di quella comunità locale e di tutta la Germania.

Allora mi viene da riflettere sul fatto che pare che oggi l’80% circa degli italiani, soprattutto giovani fino ai 30 anni, vogliano “un uomo forte” alla guida della nazione, che la fiducia nello Stato si attesta nei sondaggi al 20% scarso e quella nell’Europa al 29.

E che cos’è e cosa fa un “uomo forte”? Innanzitutto decide per tutti noi, ci farà sentire magari più sicuri anche se è poi tutto da vedere, ma ci espropria completamente del nostro status di uomini liberi e dotati di volontà civile, politica e di autodeterminazione.

Il film “Una volta nella vita” della regista Marie-Castille Mention-Schaar, parla proprio di capacità di essere liberi e consapevoli. E' ispirato ad una storia vera, quella di Amhed Dramé, un ragazzo musulmano figlio di una immigrata del Mali, che vive in una banlieue di Parigi, che nel 2009 partecipa, con la sua classe, al “Concorso scolastico nazionale sulla Resistenza e la deportazione degli ebrei sotto il nazismo” (istituito nel 1961 dal Ministero della Pubblica Istruzione), grazie all'intuizione dell’insegnante di storia e geografia che capisce che quella classe di una scuola di periferia, ha sensibilità e voglia di riscatto. 

Narra un percorso di crescita e di consapevolezza di quei sedicenni, fa capire che, senza perdere la felicità e la gioventù, senza diventare tristi e musoni, si può però fare qualcosa di bello e di utile per sé e per gli altri. 

E lo si può fare condividendo veramente, non solo foto o storielle su Facebook e WhatsApp, ma emozioni, sensazioni, pensieri, riflessioni per costruire qualcosa di nuovo, di inedito, di proprio...… 

Racconta come ragazzi inizialmente divisi e conflittuali diventano gruppo, si appassionano alla storia e all'attualità e come sapranno assumere e trasmettere la memoria di quei fatti e di quei giovani morti nei campi di concentramento, che non erano poi così diversi da loro.

Ogni immagine di questo film ed ogni pagina del libro dal quale è tratto, scritto dal giovane studente Amhed, serve proprio a capire come non cadere nel tranello della dittatura e del delegare ad altri il nostro futuro. 

Il nazismo capì che doveva seminare paura, odio e rancore per vincere: nel libro “Una volta nella vita”, Léon, un sopravvissuto al Lager, dice ai ragazzi: “Per esperienza so che spesso l’odio riesce ad averla vinta. È furbo, sfrutta la debolezza degli uni e la povertà di altri, le vecchie ferite di tutti. Poi colpisce e sfigura. Sotto la sua maschera non si riconosce più l’uomo ma si distingue solo una poltiglia di uomo. Di cui la Storia… potrebbe benissimo cibarsi di nuovo.” E poi aggiunge: “Se si possono toccare anche le nuove generazioni, queste saranno salvate. Se capiscono cosa si rischia a lasciare che gli uomini abbandonino l’umanità, anche il passato è salvo.”

Ecco allora che è molto bello ciò che scrive e dice Amhed, quasi alla fine: “Le barriere siamo noi a crearle, basta negarle perché smettano di esistere.” Ed infine “Ho una storia particolare, un percorso speciale… ma appartengo anche alla Storia, quella dell’Uomo, e per questo sono gli altri.”

Pensiamo allora alla Giornata della Memoria come ad una “memoria” viva, calata nel presente, un’occasione per capire nessi e collegamenti storici e sociali. Non si tratta di celebrare e mettersi la coscienza a posto. Quei milioni di persone cancellate dalla faccia della terra, ma non dalla Storia, non hanno bisogno di retorica ma ci hanno assegnato un compito preciso: quello di rendere sempre degno il fatto di definirsi “Uomini”. 




sabato 21 gennaio 2017

“Tecnica del colpo di Stato” di Curzio Malaparte. Strategia aggressiva e organizzazione: un libro da rileggere. Recensione di Ferruccio Quaroni

Alcuni anni fa è stato ripubblicato “Tecnica del colpo di Stato”, libro controverso di un autore controverso, Curzio Malaparte.
Dato alle stampe nel 1931, costò all’autore l’incarceramento ed il confino, venne proibito in Unione Sovietica e, addirittura, dato alle fiamme nella Germania hitleriana.
Il testo, rispetto al nazismo, soffre dei limiti di una stesura avvenuta quando la dittatura non si era ancora pienamente espressa con tutta la brutalità successiva ed indulge ad un giudizio su Hitler presentato solo come brutta copia di Mussolini.
Al di là di questo, però, va invece sottolineata, insieme ad una scrittura piacevole ed avvincente dei fatti storici, in particolare quelli relativi alla presa del potere dei soviet, la dimensione di attualità delle riflessioni sulla attuazione del “colpo di Stato”.
Malaparte sottolinea come la riuscita dell’impossessamento del potere statale da parte di una minoranza sia, appunto, frutto di una “tecnica” precisa e non di fatti storici e politici che pure compongono il quadro di riferimento generale delle vicende.
I casi di Trotzki e di Mussolini, a suo parere, testimoniano appunto come la conquista dell’apparato statale avvenne su un terreno delle tecniche concrete, della formazione di un nucleo operativo motivato, coeso e privo di scrupoli e della capacità di occupare le centrali nevralgiche dell’economia, dei trasporti, delle comunicazioni, dell’erogazione dei servizi essenziali e primari.
Trotzki, vero realizzatore della conquista del potere, forzò la mano ed anticipò Lenin nelle decisioni e nelle modalità attuative: capì che si doveva evitare che uno sciopero generale venisse gestito a favore dei socialdemocratici e dei moderati e che il futuro controllo dei sindacati avrebbe rappresentato la chiave di volta del consolidamento del potere.
Nella Germania dei primi tempi di Weimar, infatti, il tentativo di presa del potere dei nazionalisti del 1920 venne sventato proprio grazie allo sciopero generale sostenuto dal cancelliere socialdemocratico Bauer.
Il caso del fascismo viene trattato con una riflessione sulle dinamiche del “biennio rosso” e sulla capacità avuta da Mussolini di spezzare, appunto, la forza sindacale, prima ancora di quella dei partiti di massa (i socialisti ed i comunisti innanzitutto) in modo da sventare il piano di Giolitti di giocare la carta della mobilitazione dei lavoratori organizzati per arginare il movimento eversivo. Il successivo inserimento dei fascisti nel Blocco Nazionale alle elezioni del 1921 ebbe solo il risultato di illudere i moderati di avere ingabbiato il fenomeno. I fascisti scelsero però la strada di non appiattirsi sulle dinamiche parlamentari con i pochi deputati eletti, ma di continuare la loro strategia aggressiva e di consolidamento organizzativo per la presa del potere.
A parere di Malaparte il fascismo aveva già vinto tra il 1920 ed il 1921 con la distruzione pressoché totale della struttura sociale, cooperativistica e di solidarietà delle forze di sinistra e, in parte, di quelle cattoliche: la strada era spianata con l’utilizzo di una tecnica ben studiata e calibrata.
La riflessione da farsi è quella che occorre sempre storicizzare e contestualizzare i fatti ed i fenomeni. Se è pur vero che le cose non si ripetono mai nello stesso modo, un ragionamento va fatto, anche oggi, sull’indebolimento delle organizzazioni storiche dei lavoratori, sulla totale scomparsa dei tradizionali partiti di massa, su prassi comunicative e propagandistiche che, utilizzando deformazioni della verità e palesi falsità, creano sensi comuni errati e pericolosi e, ovviamente, sull’allontanamento generale delle persone dalla partecipazione e dal protagonismo vero ed effettivo, che non può essere quello dei social…
Perciò anche il discusso Malaparte può essere utilizzato per utili scopi: più in generale bisognerebbe semplicemente tornare a leggere e documentarsi maggiormente sulle fonti e le testimonianze piuttosto che nel mondo dei media e della virtualità.