A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

mercoledì 19 giugno 2013

Il destino dei partiti e i modelli di democrazia: il contributo della “democrazia deliberativa”

di Antonio Floridia

Uno dei maggiori meriti della “memoria” di Fabrizio Barca sia quello di aver introdotto nel dibattito politico e culturale del nostro paese i temi e le impostazioni proprie della “democrazia deliberativa”, una delle correnti fondamentali e più promettenti del pensiero democratico contemporaneo. Barca compie questa operazione rifacendosi ad una peculiare versione della democrazia deliberativa, - lo “sperimentalismo democratico” -, proposta dall’economista Charles Sabel, (anche in alcuni scritti firmati insieme a Joshua Cohen, un filosofo americano che può senz’altro essere considerato uno dei “padri” di questa concezione della democrazia). E’ vero che vi sono altre importanti teorie e riflessioni sulla democrazia contemporanea, che in genere vengono sintetizzate attraverso una serie di aggettivi che vengono accostati alla democrazia (“associativa”, “partecipativa”, “forte”, ecc.), e che sono tutte ugualmente meritevoli di attenzione, anche se non tutte di pari valore; ma qui vorrei sostenere che è proprio l’approccio scelto da Barca quello che oggi sembra più proficuo, dinanzi ai problemi che abbiamo di fronte: quale idea di democrazia affermare e praticare e quale idea (conseguente) di partito pensiamo che sia oggi possibile e opportuno concepire e sperimentare.
Quello della “democrazia deliberativa” si presenta oggi come un campo teorico, in cui convivono approcci anche piuttosto diversificati: e una delle principali linee di tensione che lo attraversano è costituita dalla divisione tra una visione della democrazia deliberativa che punta ai processi di formazione e trasformazione delle opinioni (un solo esempio: Fishkin, con i suoi deliberative polls) e una visione che invece la concepisce come uno scambio pubblico di ragioni e di argomenti in funzione di un problem-solving collettivo; come una ricerca esplorativa e conflittuale di soluzioni condivise e convincenti, come processo di apprendimento collettivo.

Come hanno ampiamente mostrato alcuni recentissimi contributi teorici, il tema del rapporto tra dimensione macro (il contesto discorsivo, la dimensione della sfera pubblica) e dimensione micro (gli specifici spazi o luoghi strutturati ad hoc per favorire la deliberazione), è un tema cruciale, se vogliamo che la “democrazia deliberativa” non si riduca solo alla prospettazione, un po’ di nicchia, di nuove tecniche e metodologie partecipative, ma riesca a dirci qualcosa sulla sorte dei nostri sistemi democratici.
In questo senso, una visione “sperimentalistica” della democrazia (ovvero, in termini filosofici, una concezione di ispirazione pragmatistica e deweyana), appare non solo e non tanto più “realistica”, quanto soprattutto più ricca di implicazioni politiche positive e di grande rilievo. Al centro, - come non manca mai di ricordare Barca nel suo testo e nei suoi interventi – vi è la convinzione che oggi non vi sono più le condizioni per un esercizio “solitario” delle funzioni di governo, e come non sia né efficace (né democratica, sul piano normativo) un’idea che presuma di poter contare su un accentramento del potere e del sapere necessario al governo delle nostre società complesse, o l’idea che si possa “controllare” e padroneggiare dall’alto il farsi delle politiche. L’”illusione decisionistica” che oggi pericolosamente attraversa il “senso comune” di politici e intellettuali, e che pervade anche il comune sentire di larga parte dell’opinione pubblica, si rivela non solo inaccettabile sul piano dei principi, ma anche fallimentare sul piano delle effettive capacità di governo. L’ossessiva ricerca di una leadership carismatica produce non solo leadership populistiche, ma anche leadership fragili, esposte alla volatilità di un’opinione pubblica incapace di trovare solidi ancoraggi, quadri interpretativi coerenti, “ragioni” convincenti con cui leggere la realtà in cui si vive. Non si produce una buona democrazia, se a dominare la scena vi è quella che possiamo definire come la tirannia delle “preferenze immediate”, l’affannosa rincorsa a ciò che sembra essere l’espressione di una “volontà popolare” non-mediata, ovvero assunta come data, senza alcun canale o strumento che la possa rendere più riflessiva, consapevole, aperta e lungimirante.

A tutto ciò, si deve e si può opporre la riaffermazione di una politica  come paziente ricerca – cooperativa e conflittuale, al tempo stesso - delle soluzioni ai problemi del vivere comune, di una politica che sappia anche produrre e diffondere orientamenti e valori , che intervenga nella sfera pubblica contribuendo a far sì che si possa sviluppare un discorso pubblico ricco, argomentato, pluralistico.
Un compito immane, si dirà, e si può convenire: ma un obiettivo che non ha molte alternative, se vogliamo contrastare una crescente torsione elitistica, populistica e/o tecnocratica, delle nostre democrazie. “Mobilitazione cognitiva” vuol dire, dunque, attivazione di saperi sociali diffusi, valorizzazione di esperienze e competenze, immissione nel policy making  delle opinioni, dei giudizi, dei “punti di vista”, che si producono nella società e che sono essenziali al prodursi di “buone pratiche”  - non alla ricerca di ciò che è “vero”, tecnicamente “obbligato”, ma di ciò che sembra più “giusto” (relativamente più “giusto”) nelle condizioni date. Una democrazia “sperimentale” e deliberativa punta su risorse cognitive diffuse che nessun leader (neanche il più lungimirante) e nessuna tecno-struttura può oramai presumere di possedere e di esercitare nelle proprie funzioni di governo. E vuol dire anche gestione produttiva e creativa dei conflitti, individuazione collettiva dei termini stessi del conflitto, procedure di mediazione cooperativa nella ricerca delle soluzioni. La “deliberazione”, pubblica e democratica, ritorna così ad acquisire il suo classico e originario significato: la fase della discussione che precede la decisione.
Ed è da questo modo di concepire la dimensione deliberativa della democrazia che può nascere un vero, radicale processo di legittimazione delle decisioni che spetta alle istituzioni democratiche assumere. Molto semplicemente, occorre ricordare qualcosa che, spesso, gli odierni policy-makers sembrano aver scordato: che non basta la titolarità o la legittimità istituzionale di una decisione, ma occorre anche una sua legittimazione pubblica e discorsiva, ovvero che una decisione sia riconosciuta, “sentita” come legittima da tutti coloro che da quella decisione sono toccati. O ancora: che non basta “comunicare” ai cittadini quanto si è deciso, ma occorre anche convincerli, discutendo, sulle ragioni di quella scelta (sapendo, peraltro, che questo coinvolgimento è, in tanti casi, un pre-requisito della stessa efficacia di quelle politiche, nella fase della loro implementazione).

Su queste basi, si può comprendere quale sia lo spazio e il ruolo che è possibile concepire per un partito che si dice e si vuole “democratico”. L’approccio che propone Barca ci aiuta ad uscire da un dilemma davvero poco allettante, in cui si è venuto rinchiudendo il dibattito sulla “crisi dei partiti”: da una parte, un atteggiamento “nostalgico”, che lamenta la fine dei grandi partiti di massa che hanno caratterizzato la democrazia nel secolo scorso; dall’altra, una visione rassegnata, ma spesso anche “entusiasta”, o “nuovista”, che vede oggi solo una possibile forma di partito compatibile con la democrazia del nostro tempo: un modello che si può etichettare in vari modi, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare (un partito “leggero”,  “mediatico”, “personale”, “leaderistico”..), ma che nell’insieme si può definire elitistico ed elettoralistico. E’ un modello elitista di partito, in quanto tutto viene affidato alla “libertà di manovra” e alla capacità della leadership di rivolgersi direttamente alla “gente” o al “popolo”; ed è un modello elettoralista, in quanto privilegia in modo pressoché esclusivo una funzione del partito come mera “macchina” elettorale, finalizzata alla conquista delle cariche pubbliche.
I fenomeni che lo contraddistinguono sono noti, e anche il documento di Barca li richiama: la dominanza del partito in the central office; la crescente dipendenza dalle risorse statali; la prevalenza degli eletti rispetto ai titolari delle cariche politiche di partito (una prevalenza che si esprime anche attraverso l’assottigliarsi di un vero e proprio “apparato” di funzionari e il rigonfiamento, invece, degli staff retribuiti dalle istituzioni ma che svolgono un lavoro politico per conto dei politici eletti); l’esaltazione del ruolo e dell’immagine del leader, come canale pressoché esclusivo della proiezione esterna del partito; l’indebolimento e la sottovalutazione del ruolo di una membership diffusa (come canale di un contatto capillare con la realtà sociale e territoriale del paese) e, di contro, la parossistica attenzione ai media e a ciò che dai media può “passare” all’opinione pubblica.

Ora, su questo punto, si assiste spesso ad uno slittamento dal piano analitico a quello normativo: ovvero, non è sempre chiaro se questi appena descritti sono considerati come fenomeni ineluttabili, a cui anche un partito democratico dovrebbe adeguarsi, o se si ritiene che sia giusto e necessario contrapporre ad essi, quanto meno, una diversa idea di partito (e una diversa concezione della democrazia che ne costituisce il necessario presupposto).
E’ questo il tema di riflessione dell’oggi, a cui anche il documento di Barca ci richiama: e, insieme, un compito politico urgente e ineludibile, ovvero rendere credibile, praticare e e cominciare a costruire questa diversa idea di partito.
Se riconsideriamo tutte le classiche funzioni che i partiti storicamente hanno svolto (strutturazione del voto, aggregazione e mediazione degli interessi sociali, formazione e selezione del personale politico, integrazione sociale e partecipazione, formazione delle politiche pubbliche), possiamo ben vedere come esse siano, nelle condizioni odierne, tutte ancora necessarie, per quanto oggi un partito democratico debba e possa cercare di svolgerle in forme nuove e originali. Ma su un aspetto, in particolare, occorre soffermarsi (anche perché, su questo punto, sono state sollevate critiche ed obiezioni alla visione di Barca): la necessità di un partito che coltivi, e non abbandoni come accaduto finora, la propria natura associativa e che abbia una propria solida struttura organizzativa. E’ solo un equivoco, spesso volutamente alimentato, quello di etichettare come “pesante” un partito che sia organizzato.
Pensiamo solo ai possibili compiti di un partito della sinistra, oggi: articolare, rappresentare e ricomporre interessi sociali diffusi, proporre obiettivi di trasformazione sociale ispirati da ideali di giustizia e di uguaglianza, promuovere inclusione e coesione sociale, alimentare lo spirito civico dei cittadini attraverso la partecipazione, promuovere una visione della politica come azione collettiva,…tutti questi potenziali compiti che un partito democratico, (non da solo, ma certo in modo decisivo), può proporsi, sono compiti che esigono comunque un ben diverso “modello” di partito: non possono essere svolti da un partito che “funzioni” in modo elettoralistico o leaderistico.

Certo, allo stato dei fatti, sembra un compito improbo, quello qui prospettato: abbiamo alle spalle un ventennio di programmatica “destrutturazione” dei partiti che si collocano nell’area politica della sinistra. Si è colpevolmente scambiata la necessità di un profondo rinnovamento della cultura politica con il disinvolto smantellamento della struttura organizzativa ereditata dal passato: e, si sa, è molto facile smontare un’organizzazione complessa, molto più difficile ricostruirla ex novo.
Ma, forse, si è ancora in tempo: e si deve ripartire, crediamo, da una riflessione, anche teorica, su cosa può essere, oggi, un partito democratico: in un duplice senso, per il ruolo che può esercitare nel sistema politico, come agente di una più elevata qualità della democrazia, e per il suo assumere la democrazia come valore, paradigma di una critica dell’esistente e della sua possibile trasformazione. E, si deve aggiungere, democratico in quanto ispira anche la propria vita interna ad una concezione ricca ed esigente della democrazia, non ad una visione minimalistica, meramente elettorale della partecipazione (come accade quando le “primarie” sono di fatto l’unica occasione di coinvolgimento dei propri aderenti o di rapporto con gli elettori).

Si dice, con un luogo comune, che la nostra sia oramai una “società liquida”: ma è una società che, nondimeno o forse proprio per questo , esprime una domanda latente e insoddisfatta di “identificazione” e di “senso”: di fronte a tutto ciò, la risposta non può che essere quella di ricostruire un partito in grado di formare e orientare l’opinione pubblica, non solo e non tanto di adeguarvisi; e quindi partiti con un’organizzazione diffusa in grado di attivare dei propri e autonomi canali di orientamento e formazione del “senso comune” e strumenti in grado di consolidare e strutturare il proprio rapporto  con la società.
Si potrebbe utilmente ripercorrere quale sia stato l’effettivo modo di funzionamento dei partiti di massa, andando oltre gli stereotipi entro cui oggi sono spesso rinchiusi, con una sorta di damnatio memoriae. Ma non è questa la sede. Certamente, un dato cruciale di quel modello appare “irrecuperabile”: la forte cornice ideologica che ne costituiva un’essenziale risorsa simbolica, ma anche una cruciale risorsa strategica. Tuttavia, anche su questo terreno, occorre sottrarsi alla tirannia dei luoghi comuni: davvero, vi è una “crisi” o una “fine delle ideologie”? Non sembra proprio: sappiamo bene, anzi, come alcune parti politiche abbiano fondato le proprie fortune su precise “ideologie”, ovvero credenze e giudizi che acquistano la forza del “senso comune”, frames cognitivi che si rivelano estremamente resistenti e vischiosi.
Costituisce una pericolosa illusione pensare che oggi non vi sia una dimensione ideologica della politica, assumendo una precisa definizione di “ideologia”: ovvero come un insieme - più o meno coerente e riflessivo - di opinioni, giudizi e pre-giudizi, credenze, valori, ideali, atteggiamenti emotivi, identificazioni simboliche, che caratterizza il rapporto degli individui con la sfera politica; un insieme che può essere abbandonato alla “spontanea” influenza dei vari fattori che agiscono sull’opinione pubblica o che, al contrario, può essere trasformato, arricchito e reso più consapevole, da una più diffusa prassi deliberativa e da una più elevata qualità deliberativa del discorso pubblico.
Da qui la necessità di un partito democratico che sappia elaborare e proporre le proprie idee, e che abbia anche gli strumenti organizzativi per diffonderle e radicarle, contrastando giudizi, opinioni, mentalità che alimentano altre visioni della società e del suo possibile futuro. E quindi, se non è riproponibile l’immagine di un partito “pedagogico”, che “dall’alto” dispensa la propria dottrina, rimane intatta l’esigenza di un partito che eserciti, nelle forme e con i canali oggi disponibili, una funzione di “mobilitazione” delle conoscenze e dei saperi diffusi, capace di attingere alla ricchezza di esperienze e competenze che la società esprime, ma capace a sua volta di immetterle in un circuito più ampio. Si può individuare qui, anche in chiave organizzativa, un terreno di innovazione: un partito così concepito è un attore della sfera pubblica, non un ingranaggio delle istituzioni; e ha il compito – che altri soggetti non possono svolgere – di proporsi come il soggetto che si pone lungo il crinale che unisce e distingue, nello stesso tempo, sfera pubblica e istituzioni.
Appare quindi evidente come la dimensione organizzativa non sia ininfluente o collaterale, un puro mezzo. Si può certo abbandonare la formula del “partito di massa”, perché evoca altre epoche, ma rimane un dato essenziale: un partito democratico deve fondarsi su una dimensione associativa, ampia, diffusa e strutturata.

Un partito democratico è, per definizione, e dovrebbe esserlo in pratica, una libera associazione di individui che condividono idee, valori e programmi politici, e che si organizzano per affermarli contro visioni alternative della società e del suo possibile sviluppo. Un partito democratico è un’associazione di cittadini che concorrono, con gradi e diversi livelli di partecipazione, all’elaborazione di quelle idee e di quei programmi e che si confrontano, nella sfera pubblica, con altri cittadini, portatori di idee diverse. Nel momento stesso in cui svolge questo ruolo, un partito rafforza la qualità della democrazia, migliora la qualità del rapporto tra istituzioni e società, produce spirito civico, accresce la competenza politica dei cittadini, offre ad essi canali e occasioni di partecipazione. E lo deve fare anche attraverso la propria vita interna, se questa si alimenta e si esercita attraverso la discussione pubblica, il confronto argomentato, l’interazione comunicativa “orizzontale” (la rete delle buone pratiche locali) e “verticale” (la capacità del “centro” di ricevere efficaci informazioni dalla “periferia”): anche per questo, una dimensione organizzativa di tipo leaderistico, oggi, non può essere in alcun modo assunta come un modello valido per un partito che assuma la democrazia come proprio orizzonte di valori.
Barca, a questo proposito, usa la formula del “partito-palestra”: è chiaro il senso, ma  forse questa espressione è riduttiva, o fonte di possibili equivoci. La “palestra” evoca un luogo in cui ci si forma e ci si allena; ma deve essere chiaro in vista di che cosa si esercitano le proprie capacità. Il rischio è di ricadere in una qualche visione, tipica delle teorie della “democrazia partecipativa” degli anni Sessanta e Settanta, in cui prevalente è la finalità educativa della partecipazione, lo sviluppo delle potenzialità umane e critiche di chi partecipa: ma questo, come ci ricorda Elster, può essere solo un “effetto collaterale”, un by-product della partecipazione e della deliberazione. Occorre che l’una e l’altra, anche nella vita di un partito, siano finalizzate alla produzione di scelte e decisioni.
Tutto ciò implica profonde innovazioni che non possono essere considerate solo “organizzative”: comporta l’adozione di metodi e di stili di discussione che costruiscano davvero una “rete” in grado di connettere idee, esperienze, proposte. Il concetto-chiave, qui, è quello di policy community. Per definizione, in ogni partito, c’è sempre un network che decide sulle posizioni programmatiche da assumere in una determinata arena delle policies in cui il partito è impegnato: si tratta di capire come e da chi è formata questa rete di attori rilevanti che determinano la definizione di una proposta; si tratta di capire se questa “rete” è pubblica e politicamente responsabile, o chiusa ed auto-referenziale;  se e come essa sia realmente inclusiva, aperta al concorso più largo di coloro che hanno, o avrebbero qualcosa da dire, sull’argomento; se e come è aperta all’influenza di gruppi di pressione esterni e se questo rapporto avviene in modi trasparenti o sotterranei; se il rapporto con gli intellettuali e il mondo delle competenze specialistiche è costruito in modo da valorizzare tutti i possibili apporti, o se non si creano, piuttosto, circuiti ristretti di expertise che monopolizzano l’elaborazione politica e programmatica del partito.

Si apre qui un ampio campo di sperimentazione delle metodologie partecipative che si ispirano alla democrazia deliberativa: il filosofo Alessandro Ferrara, in un suo intervento sul blog di Barca, cita il Deliberative Poll proposto da Fishkin o il Deliberation Day proposto da Bruce Ackerman: può darsi, ma su questi esempi avanzo qualche dubbio. Quelle citate sono metodologie che si ispirano solo ad una delle possibili visioni che oggi si misurano all’interno del campo teorico della democrazia deliberativa. Il problema non è tanto (o solo) quello di sapere, ad esempio, cosa veramente pensa un campione rappresentativo degli iscritti al partito su una data questione, e cosa ne pensano dopo essere stati “esposti” ad un adeguato flusso di informazioni e aver discusso tra loro (com’è nella logica del “sondaggio deliberativo”), ma di attivare e mobilitare, e sottoporre ad un confronto pubblico, idee e giudizi, esperienze e conoscenze diffuse, dinanzi ad un problema e alle proposte che occorre avanzare per risolverlo. E quindi, per un partito, appare più opportuno il ricorso a tutta quell’ampia gamma di metodologie deliberative che, nella letteratura in materia, vengono definite “calde”, ovvero percorsi partecipativi, ben definiti e strutturati nei tempi e nelle modalità di discussione, ma aperte al contributo di tutti coloro che hanno qualcosa da dire e argomenti da sostenere. Anche per un partito, insomma, bisogna tener conto di quanto emerge dalla sempre più diffusa sperimentazione di dispositivi deliberativi: quando sono immessi in un processo effettivo di policy making, alcuni istituti appaiono più efficaci e produttivi di altri.

Infine, occorre che una tale idea di partito si misuri apertamente con il problema della leadership; ed è bene chiarire che, nel prospettare questa idea di partito, non vi è alcuna sottovalutazione di questo tema: solo che, della leadership, occorre prospettare una visione, per così dire, sobria, non titanica. Intanto, una selezione di figure in grado di esercitare una leadership, a tutti i livelli, può avvenire solo se vi è un ampio tessuto associativo, organizzativo e deliberativo, che ne permetta prima di tutto la formazione e la sperimentazione “sul campo”. E poi, per quanto riguarda i “vertici”, un leader veramente “forte” è un leader che ha un partito alle spalle, un partito capace di contribuire creativamente all’elaborazione delle scelte del partito. Altrimenti, come si è visto, un leader “solitario”, per quanto “legittimato” dalle “primarie, è un leader vulnerabile, come un generale in battaglia che emani le sue direttive, ma che non ha alcuna “linea” di comunicazione che lo informi su quanto veramente sta accadendo sul terreno, che non ha alcuna “catena di comando” per trasmettere veramente i suoi comandi, e che non ha nemmeno uno “stato maggiore” in grado di avvertirlo tempestivamente sugli errori che sta commettendo.
In fondo, possiamo applicare ai partiti anche le acquisizioni teoriche che provengono dal ricco filone di riflessioni sulla razionalità dei processi decisionali: davvero si pensa che un leader, solo perché eletto direttamente e legittimato a decidere, sia in grado di possedere una visione sinottica e onnicomprensiva delle scelte da compiere e dei corsi d’azione alternativi che si trova dinanzi? O che possa supplire a questo costitutivo deficit cognitivo e informativo ricorrendo agli staff degli esperti o ai sondaggi? Ci pare molto più proficuo e saggio adottare un’idea di “razionalità limitata”, e quindi ritenere più proficua, oltre che realistica, una visione dei processi decisionali affidata al confronto argomentato, alla discussione pubblica, e anche alla mediazione tra opinioni diverse, in grado di superare, nella misura del possibile, l’inevitabile parzialità dei punti di osservazione e degli schemi cognitivi da cui ciascun individuo (e anche un “grande” leader politico) guarda al mondo che lo circonda e alle scelte che è necessario compiere per affrontarne le sfide.
Insomma, quello che si apre è un grande campo di ricerca e di sperimentazione: ma, con il congresso del PD alle porte, occorre che questo stesso appuntamento sia davvero vissuto come una sede per la discussione e il confronto delle idee, e poi che da esso emergano scelte che permettano di avviare, e non precludano in partenza, un percorso produttivo di innovazione che avrà bisogno di tempo e di pazienza.

Antonio Floridia dirige il Settore “Politiche per la partecipazione” della Regione Toscana. Ha pubblicato recentemente il volume La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi (Carocci, Roma, 2013).

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