A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

lunedì 28 marzo 2016

L'Europa dei Re e delle Regine non può capire ma solo perdere. Idomeni tra Waterloo e Dachau, la fine dell'Europa

di Claudio Gherardini

La nostra Europa ha perso perché non è stata abbastanza BELLA e FELICE e UNITA e men che meno SOLIDALE. Ha vissuto per almeno 30 anni nella bambagia senza nemmeno avere un dubbio che quel "benessere" non fosse per sempre. Invece le mafie e la corruzione andavano in metastasi pesante e le comunità anziché evolversi regredivano. Il tutto appariva negli anni 80 come il gran ballo sul Titanic che avrebbe trovato l'iceberg balcanico prevedibile da politici consapevoli ma non visto dai piloti dopati di allora. Dopo il crollo del Muro di Berlino l'illusione della felicità a buon mercato era una droga troppo forte per dei "narcotizzati" tutto discoteca e parrucchiere.

D'altronde siamo un museo più che un continente. Abbiamo ancora i Re e le Regine e siamo convinti di essere sempre i migliori mentre il resto del mondo sbalordisce della inettitudine, ignavia, ignoranza. C'è persino chi pensa di essere ancora nell'800 e agisce di conseguenza. Governanti, intendo, non gente "comune".

Siamo l'unica terra dove essere ignoranti è divenuta una virtù. Da quando è divenuta una virtù il crollo verticale è iniziato inevitabile.

Come potevamo pensare di essere immuni dagli eventi biblici e dalle migrazioni epocali che abbiamo anche contribuito a provocare ma che sarebbero comunque arrivate prima o poi?

Enormi sciacalli attendono il nostro crollo supportato da nostri "conterranei" che si nutrono degli intestini dei loro elettori anziché elevare loro le menti. 

Le potenze anti occidente producono ogni giorno centinaia di ore di informazione nella quale siamo descritti, nella migliore delle ipotesi, come poveretti asserviti al "mostro americano". Le varie enormi reti russe e cinesi spiegano come noi siamo il male assoluto e i russofoni vengono informati da molti anni che il nostro obbiettivo è distruggere la Russia. Le oligarchie, non certo i popoli, attendono il nostro crollo per mangiarci al dettaglio come stanno già facendo proprio in Ucraina e nei Balcani da Donesk al Pireo. Seguiti a ruota da Pechino che intanto si sta mangiando a ettari i terreni nientemeno che dell'Africa.

In mezzo al guado è rimasta la Turchia e qualche milione di persone che sono persone come noi. 

I termini come rifugiati, migranti, emigranti, fuggiaschi, li rendono diversi da noi e ci fanno sentire diversi da loro. Ma non lo sono.

Una formazione politica italiana, solo una in tutto il mondo, da trenta, dico trenta anni chiede l'entrata in Unione Europea di Israele e Turchia. Proviamo a pensare come sarebbe il Mediterraneo oggi se da trenta anni fossero a Brussels anche Tel Aviv e Ankara.

Questi voli immaginari servono a esercitare la Ragione e, appunto, l'immaginazione. Virtù scomparsa del tutto in Europa, non essendo riciclabile per vie demagogiche e populiste. 

L'Immaginazione e la Ragione...

Perché chi ne è dotato e anche il famoso mondo pacifista, non sono andati a Varsavia e Budapest, Sofia e Bucarest a spiegare cosa fosse il sogno del Manifesto di Ventotene? Spiegare che essere europei, oggi, è cosa diversa che essere ex funzionari del Comintern?

La grande occasione del crollo del muro di Berlino, che poteva davvero creare un continente nuovo e felice in barba alle democrature e alle dittature, è stata persa. I popoli si sentono più sicuri sotto Vladimir Putin che nei nostri staterelli antichi e arteriosclerotici. 

La Democrazia sembra non avere difese sufficienti e essere destinata alla estinzione tramite delle trasfigurazioni orrende manovrate da personaggi mai davvero evoluti e divenuti ora leader del ritorno al passato peggiore.

Su tutto regnano i finanzieri e i fondi comuni che decidono chi deve vivere e chi deve morire, in senso allegorico ovviamente. Anche perché sono persone come noi e siamo noi proprio in molti casi.

In mezzo a questo ingranaggio marcio e disumano si trovano purtroppo molti milioni di persone, eroi della sopravvivenza. Il "destino" ha voluto che a smascherare la vera natura delle nostre democrazie, una volta per tutte, siano state delle persone, circa quindicimila, capitate al momento sbagliato nel posto sbagliato della Storia.

La spianata dell'innocuo villaggio di migliaia di abitanti chiamato Idomeni, nella Macedonia greca, già terreno insanguinato nei secoli, come del resto tutti i terreni europei.




Veramente questi quindicimila pensavano di aver già lasciato il posto sbagliato, casa propria, e di essere in salvo e invece si sono trovati a affondare nel fango con i loro bimbi, per settimane.

Che abbiamo fatto alla Macedonia per essere trattati così? - Abbiamo cercato di spiegargli che la Macedonia è stata costretta a chiudere il cancellino davanti a loro perché lo ha chiuso l'Austria. Che l'Ungheria e la Bulgaria hanno schierato l'esercito per impedire alle mamme e ai bambini di filtrare nei loro territori e che la Polonia, la Ceska e la Slovacchia non vogliono musulmani nel loro terreno.

Allora questi quindicimila hanno aspettato, sempre meno pazientemente, di capire se esistesse un governo europeo e cosa avrebbe deciso. 

Il risultato delle decisioni è stato qualcosa di molto simile alla famosa frase "se non hanno pane mangino briosce". 

"Se vogliono andare al Nord, tornino in Turchia. Se vogliono fuggire dalla guerra, tornino nelle zone vicine alla guerra". Se vogliono la Libertà siano rinchiusi in centri militari.

E per ora sono sempre nel fango i quindicimila, come in un osceno reality show, uno zoo, paradiso di fotografi e videomaker che possono documentare come riportare alla inciviltà un grande gruppo di persone civili e in larga parte istruite. Come far ammalare bimbi sani e ammattire gli adulti.

E alla fine sono arrivati venti autobus, i primi venti, e in tanti con aria rassegnata, si sono decisi a salirci e tornare a Sud. Duemila a settimana saranno riportati verso l'Egeo e sistemati in campi militarizzati dove non potranno entrare che in pochi per controllare come verrano trattati.

Ma in tanti non vogliono salire sui bus e in diversi si allontanano la notte per cercare falle nel recinto sistemato dalla Macedonia e si sta pensando anche di entrare in Albania dove sono già in attesa. Albania e Italia, come nel 90, quando gli albanesi furono portati nello stadio di Bari, alla sudamericana.

E la Grecia c'entra poco e non ha soldi ma qualcosa fa. Un ministro del governo di Atene è andato a vedere Idomeni è ha pronunciato il nome DACHAU.

Ora con l'estate arriveranno altre masse anche in Sicilia. Cosa accadrà ancora?

Dopo la sconfitta sul campo di Idomeni, la sorte dei quindicimila come potente propaganda contro l'occidente, l'Unione Europea finisce nell'ombra della ignavia e per ricostruirne una immagine e una sostanza un poco più vicine al sogno di Ventotene ci vorranno decenni anche se si cambiasse direzione subito.


venerdì 19 febbraio 2016

Sinistra, sfida per l’egemonia

di Antonio Floridia (pubblicato su "Il Manifesto" del 17/02/2016)

L’intervento di Piero Bevilacqua non sollecita soltanto una riflessione sulla parcellizzazione dei saperi: da qui si può partire, infatti, anche per affrontare un problema immediato, legato alle sorti del nuovo partito della sinistra che si vuole costruire.
Un tratto costitutivo e originale di questa nuova formazione dovrebbe essere la sua capacità di ricreare, e di ripensare su basi nuove, un rapporto tra cultura e politica, oggi profondamente logorato o del tutto inesistente.
L’assenza di questo rapporto si materializza in un dato: da una parte, non si può dire che sia assente una produzione intellettuale — anche di alto livello — che possiamo definire «critica» (ovvero, che non si adegua ad una qualche visione apologetica del presente); dall’altra parte, queste idee non riescono in alcun modo a farsi cultura politica, cioè a diventare forma di auto-comprensione dei comportamenti politici. Uno scarto, insomma, tra ciò che il pensiero critico e democratico del nostro tempo comunque produce e il suo essere in grado di tradursi nelle idee e nel senso comune della prassi politica quotidiana.
Un solo esempio: la teoria e la filosofia politica contemporanea riflettono da tempo su una definizione ideale e normativa di democrazia, sui modi possibili con cui essa può misurarsi oggi con due grandi temi:
a) il pluralismo irriducibile delle visioni del mondo e l’interrogativo sul come costruire, in queste condizioni, una base condivisa di consenso sui fondamenti di una democrazia costituzionale;
b) la tensione tra la logica impersonale e funzionale degli imperativi sistemici globali, che agiscono alle spalle degli individui, e la necessità di riconquistare e garantire una nuova forma della sovranità democratica dei cittadini.
Ebbene, chiediamoci: cosa passa o resta di tutto questo nell’idea diffusa di democrazia che orienta la cultura politica diffusa, anche quella di coloro che continuano a definirsi, e sono, progressisti, democratici e di sinistra? Poco.
Capita anzi di constatare come spesso, in realtà, si esprimano idee — nel migliore dei casi — del tutto fuori tempo rispetto ai compiti del presente -, ma molto spesso anche implicitamente gravate da altre fonti, e da fonti non controllate. Ad esempio, agisce una visione schumpeteriana della democrazia come mera selezione competitiva delle elites o, per altro verso, una visione ingenuamente direttistica e anacronistica della partecipazione popolare.
Ma lo stesso vale per la cultura economica: e basti qui richiamare una celebre battuta di Keynes: «Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. (…) Gli uomini della pratica, i quali si credono liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto (…) odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».Insomma, il concetto gramsciano di senso comune, come stratificazione spesso incoerente e irriflessiva di idee ricevute, non ha perso nulla del suo valore. Ma dove nasce questo scarto? Sarebbe troppo facile addebitarlo (ma nondimeno è una parte della spiegazione) all’assenza di buone letture, o alla logica dell’usa e getta che oggi domina anche il mercato delle idee. Il problema è che, da un trentennio almeno, si è spezzata una qualche connessione organizzata tra produzione intellettuale e cultura politica, in grado di produrre egemonia. I canali si sono interrotti. E si possono individuare due lati del problema.
Da una parte, una malintesa lettura della cosiddetta crisi delle ideologie e l’idea che i partiti possano reggersi solo sui programmi e non anche, e prima di tutto, su una visione della società, dei suoi conflitti, delle possibili alternative (su un sistema di idee, conoscenze e paradigmi, che plasmano programmi e strategie). Su questo punto, qualsiasi progetto di ricostruzione della sinistra deve sforzarsi di reinventare delle istituzioni di raccordo stabile tra tre livelli fondamentali: la produzione scientifica e intellettuale «alta», la cultura politica diffusa, le idee che ispirano l’auto-comprensione dei singoli individui (il loro senso comune).
Ma una spiegazione adeguata di quello scarto richiede altro. E non può che richiamarsi all’esito della vicenda storica del movimento operaio, socialista e comunista, nel Novecento. Schematizzando, si può qui dire questo: la sinistra, sia nelle varianti socialdemocratiche che in quelle comuniste, ha sempre pensato la propria funzione come inscritta, incastonata, in un movimento oggettivo della storia.
La politica era pensata dentro un qualche orizzonte finalistico: ed era questo orizzonte che dava senso all’azione quotidiana e unificava i saperi. La teoria doveva essere la levatrice di questo movimento delle cose, mentre dalla struttura sociale emergeva il soggetto collettivo che se ne poteva fare interprete.
L’idea che un altro modello di società fosse possibile, ed anzi concretamente avviato alla realizzazione in qualche parte del mondo, agiva come potente collante delle forme di coscienza collettiva.
Tutto questo, oggi, è finito, ed è impossibile recuperare una qualche idea di orizzonte a cui rifarsi. Né può supplire a questo vuoto un richiamo ai valori: anche laddove si riuscisse a sfuggire ai rischi della retorica, un valore ha poi sempre bisogno di essere tradotto in un orientamento politico e programmatico.
Ma se non può esserci più alcun ancoraggio ad un senso della storia, ad una direzione che unifichi conoscenze scientifiche, coscienza teorica e prassi politica, non per questo è venuto meno il bisogno di dare un senso a ciò che accade. Il nostro orizzonte, oggi, può essere solo quello della nostra epoca, e le possibilità di cambiamento devono essere intese non come l’aspirazione soggettiva di qualcuno, ma come una risposta credibile ai problemi del presente, e come una potenzialità già inscritta nei fatti che abbiamo sotto gli occhi. È questo il terreno su cui riconnettere produzione intellettuale e cultura politica. La sinistra, in particolare, deve assumere fino in fondo su di sé il compito di ridefinire le forme e il senso della democrazia, globale e locale, nel nostro tempo: e non è un compito pacifico. La battaglia delle idee, come la si definiva un tempo, non ha esiti scontati.
Che vuol dire, oggi, «crisi della democrazia»? Se vuol dire ingovernabilità, allora hanno un senso le risposte e le pratiche istituzionali di tipo plebiscitario e decisionistico, che oggi prevalgono; se vuol dire crisi di legittimazione, occorre cercare altre risposte. E il confronto non è solo tra il neoliberismo (formula che rischia di diventare un comodo pass-partout) e la sinistra (vecchia o nuova): vi sono letture diverse anche tra coloro che pure si oppongono allo stato di cose presente. Da alcuni versanti antagonistici, ad esempio, provengono letture apocalittiche della democrazia, che in modo molto disinvolto sottovalutano la necessaria difesa di uno stato costituzionale di diritto e buttano alle ortiche ogni idea di democrazia rappresentativa. O che si appellano al proliferare di micro-conflitti prodotti da soggettività mutevoli e contingenti, magari da unificare con la creazione artificiale di un popolo. Non sono temi, questi, da considerare oggetto di convegni e seminari: dall’idea di democrazia che abbiamo in testa discendono anche i comportamenti politici quotidiani.
Una lettura critica del presente, fondata su robuste basi teoriche e solide acquisizioni scientifiche, da un lato; e dall’altro, i luoghi e gli strumenti con cui filtrare la produzione intellettuale nelle idee e nella cultura politica diffusa: se non si ricostruisce questa connessione, una qualche egemonia — con quello che questa vecchia parola evoca — avrà comunque modo di affermarsi. Ma non sarà della sinistra.

giovedì 28 gennaio 2016

"CON LA PIRA IN VIETNAM" presentazione del libro di Mario Primicerio - Giovedì 18 febbraio, ore 21 presso la SMS di Peretola (Via Pratese 48). Con l'autore sarà presente Vannino Chiti

"Con La Pira in Vietnam", non racconta solo l'avventuroso e politicamente temerario  viaggio ad Hanoi del 1965, in cui il  25enne futuro sindaco di Firenze, accompagnò l'allora sindaco, Giorgio La Pira. Un viaggio a tappe, pieno di soste e folgoranti contatti fino all' incontro con Ho Chi Minh, Presidente del Vietnam del Nord. Un viaggio  motivato dalla fiducia che ci fossero, al di là della diplomazia protocollare,  condizioni utili alla cessazione della guerra del Vietnam che, causa anche l'impegno diretto degli USA, in un'area su cui premevano interessi di URSS e Cina, rischiava l'innesco di un conflitto nucleare generalizzato.
Mario Primicerio ricostruisce scrupolosamente lo sfondo  internazionale  in cui maturò e si svolse questo viaggio e poi la cronaca giorno per giorno dello stesso. E illumina le ragioni di lucidità e concretezza -oltre a quelle della fede-  che motivavano La Pira,  tanto che le condizioni per il cessate il fuoco a cui si arrivò  nel 1973, furono le stesse che emersero  dalla infinite relazioni di La Pira con tutte le più autorevoli espressioni  del pacifismo mondiale  e, alla fine, da quel colloquio di 2 ore  ad  Hanoi. Ma dopo 7 anni di bombardamenti, massacri, centinaia di migliaia di morti, invalidi, orfani, e un territorio totalmente devastato e avvelenato biologicamente, insieme alla umiliazione del più grande paese occidentale, gli USA.
E'un libro di grande attualità, siamo ancora sul " crinale apocalittico" di cui parlava La Pira: oltre alle armi atomiche che angosciavano La Pira, oggi alla  terribile potenza delle tecnologie militari - nella diffusa disponibilità non solo degli Stati- si aggiunge la crisi climatica, migratoria, demografica.
I canali formali della politica e della diplomazia sembrano attestarsi su una rappresentazione  convenzionale e virtuale della realtà  che avanza e  forse un di più di pensiero, e del "realismo profetico"  di La Pira ci soccorrerebbe per evitare  in tempo una devastante collisione con le contraddizioni che noi stessi abbiamo creato su questo piccolo pianeta.