A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

giovedì 19 giugno 2014

Considerazioni sull'esito del voto europeo ed amministrativo del 25 maggio e 8 giugno

di Antonio Floridia (*)

L’analisi del voto del 25 maggio, man mano che sono disponibili studi e ricerche più approfondite, si presenta piuttosto semplice: tutt’altro che semplice, invece, è la discussione sulle implicazioni politiche di questi risultati.
Dal punto di vista dell’analisi del voto europeo, si fa presto ad elencare i fattori e i fenomeni che spiegano il risultato:
a) la presenza di un “astensionismo asimmetrico”: ossia, il calo dei votanti non si è distribuito uniformemente tra le forze politiche, ma ha “colpito” alcune di esse più di altre. In particolare, sono stati ex-elettori del centrodestra e, in una certa misura del M5S, a far crescere la percentuale dei non-votanti;
b) l’elevatissimo livello di “fedeltà” degli elettori del PD;
c) tuttavia, in presenza di un elevato astensionismo, soltanto la “tenuta” degli elettori PD del 2013 non sarebbe stata sufficiente ad ottenere quella percentuale elevata (40,8%) che è apparsa così sorprendente. Il PD acquisisce “in entrata” oltre due milioni e mezzo di voti “nuovi”, che provengono in particolare (ed il dato è confermato da tutte le analisi dei “flussi” nelle varie aree del Paese) dall’area centrista di “Scelta civica”, praticamente “prosciugata”, e solo in parte da ex-elettori del M5S (molti meno di quanti si è detto o sperato);
d) il quadro non sarebbe completo se non si rilevasse un altro fenomeno, che peraltro suona come una conferma di un dato “storico”: sono pochissimi gli elettori di centrodestra che “passano” direttamente al voto per il centrosinistra;
e) solo un clamoroso errore politico di Grillo (avere alzato le aspettative e usato toni aggressivi) ha permesso di leggere come una “sconfitta” il risultato del M5S: che, in realtà, ottiene un risultato tutt’altro che scontato e irrilevante. Soprattutto, emerge un dato: “la cultura”, la visione delle cose, che trasmette Grillo continua ad avere una forte presa in vasti strati dell’elettorato e non sembra destinata a dissolversi tanto facilmente.

26 maggio 2014: conferenza stampa del PD dopo l'esito delle elezioni europee.

Il voto amministrativo, poi, presenta alcune peculiarità: nel complesso, il centrosinistra guadagna il controllo di molti nuovi Comuni, ma il dato più evidente è l’elevatissimo numero di “ribaltamenti”, specie in occasione dei ballottaggi. Non sono ancora disponibili dati completi, ma vi è poi un altro fenomeno da segnalare: la drastica riduzione del voto “personale” ed “esclusivo” ai candidati sindaci. A spiegare questo dato, vi è una ragione “tecnica” (la nuova struttura della scheda, che non facilitava l’espressione di un voto al solo candidato), ma anche un dato politico: è cresciuta la frammentazione dell’offerta (il numero delle liste in gara) e conseguentemente ha pesato molto di più la competizione tra i candidati alla carica di consigliere.
In generale, e anche per il PD, vi è una notevole disparità tra il voto “politico” ed il voto amministrativo: anche qui una conferma di un dato oramai strutturale del comportamento elettorale, ossia la progressiva estinzione di una tipologia di voto tradizionalmente definito di “appartenenza”, ossia un voto motivato essenzialmente dall’affermazione di un’identità politico-culturale, quale che fosse l’”arena” elettorale, nazionale o locale. Se un voto “ideologico” permane, si potrebbe dire anzi che va cercato a destra: nella fedeltà indiscussa che una fetta consistente di elettori, nonostante tutto, continua a dimostrare nei confronti di Berlusconi.
In questo quadro, anche la progressiva caduta della partecipazione elettorale va vista in modo “disincantato”: non sempre e non necessariamente, come un allontanamento dalla “politica”, ma come un rifiuto specifico dell’”offerta” presente in quel momento. Accanto ad un astensionismo “strutturale” (elettori, cioè, che non vanno più a votare), c’è una quota crescente (stimabile intorno al 20% dell’elettorato) di astensionismo “intermittente” (elettori, cioè, che decidono di volta in volta se andare a votare). Si tende poi a giudicare l’astensionismo come un distacco “dai partiti”, o una protesta “contro i partiti”: in realtà vale anche l’opposto, ossia la sempre più debole presenza organizzativa dei partiti impedisce che la politica giunga a coinvolgere anche gli elettori “marginali”, quelli meno motivati, quelli che non seguono i talk-show televisivi.
Ma il dato saliente di questa tornata elettorale va visto nella crescente “volatilità” dell’elettorato: si stima che circa il 40% degli elettori nel 2013 abbia cambiato voto e quest’anno sembra che ci si avvicini ancora a questo dato. Non solo, ma sembra che una fetta consistente degli elettori decida se e come votare negli ultimi giorni, o addirittura nel momento di entrare in cabina.
Ci sono due diverse scuole di pensiero, su questo punto: ci sono i cantori della politica “post-ideologica”, secondo cui questo elettore “volatile” sarebbe un prototipo di cittadino oramai svincolato da logiche ideologiche, che vota sulla base delle idee e delle proposte che trova “sul mercato”, che si muove libero da ogni pastoia. Ci sono, invece, coloro (e io mi considero tra questi) che non giudicano questa volatilità come un dato rassicurante per la nostra democrazia. La spiegazione della “volatilità” elettorale ci sembra un’altra: siamo di fronte ad un’opinione pubblica senza oramai stabili riferimenti, dis-orientata, esposta alle più svariate e improvvise suggestioni.
La chiave per comprendere l’esito del voto, insomma, si può racchiudere in una sorta di equazione: partiti dalla debole identità politica e culturale, sommati ad elettori senza più appartenenze stabili, producono una miscela esplosiva di volubilità e aleatorietà. Si può esaltare questo fatto e pensare di essere oramai entrati trionfalmente nell’era “post-moderna”, e che in futuro avremo a che fare solo con elettori dalla soggettività contingente e mutevole; si può pensare invece che tutto ciò non sia affatto rassicurante per la nostra democrazia; e che ci si debba porre il problema di ricostruire dei partiti: rinnovati quanto si vuole, ma degni di questo nome.

Ma, quale che sia la lettura che si dà di questa volatilità, un dato è certo: il voto del 25 maggio è un voto “infido”, un voto ben difficile da “stabilizzare”. E Renzi, a differenza di altri, mi sembra lo abbia ben capito, mostrando una certa prudenza. E’ inevitabile, tuttavia, chiedersi come il PD possa pensare di consolidare questa “onda anomala” di cui ha beneficiato. La risposta più comune, a cui anche Renzi indulge, è quella di dire: “non bisogna deludere le speranze suscitate” e quindi non resta altro da fare che “accelerare”...”fare le riforme” (ma quali, e come?). Ora, senza dubbio, una parte della scommessa (ed è una scommessa ad alto rischio) il PD di Renzi la può giocare e sperare di vincere sul terreno dell’azione di governo e dei risultati che riesce a “portare a casa”. E non sarà facile, come sappiamo. La politica italiana vive, oramai da due decenni, sulla speranza salvifica che viene affidata ad un leader: ora sono Renzi ed il PD a beneficiare di questa propensione (che per molti italiani è anche un alibi) a “delegare” ad un leader la soluzione dei problemi.
Anche il successo di Renzi si può leggere all’interno di quello che è stata una “narrazione dominante” nella politica italiana. Occorre quindi chiedersi: quale è stato il “discorso pubblico” dominante? Ossia: quali sono state le idee, gli schemi interpretativi, il “senso comune”, con cui si leggono le vicende politiche e sociali del nostro paese?
Beppe Grillo dopo l'esito delle elezioni europee del 25 maggio 2014.
Si potrebbe dire che lo schema di gran lunga prevalente è quello tipico del “populismo”, ma  occorre chiarire il senso di questa categoria. Possiamo fissare alcuni punti fermi. Il populismo è, innanzi tutto, una sorta di “racconto”, una narrazione con cui si propone una visione della politica. Questo racconto ha alcuni passaggi-chiave. Il primo è quello che contrappone “noi” e “loro”: “noi” cittadini comuni (un corpo indistinto, senza interne differenze di idee ed interessi) e “loro”, le élite e le “caste” (non sono quelle politiche, ma anche quelle intellettuali). Il secondo punto è un’idea dei problemi che la politica deve affrontare come di una questione “semplice”: per risolverli, basta la buona volontà, uno spirito decisionista, “tirar dritto”, poche chiacchiere e discorsi, fare le cose e non stare a lì a discutere e a riflettere più di tanto. Le due cose sono collegate: se le cose sono, in fondo, semplici, allora non occorrono partiti, sindacati, associazioni, rappresentanze, “filtri”, regole. Basta “uno di noi” per risolvere i problemi.
Il “discorso pubblico”, in Italia, continua ad essere segnato da questa vera e propria ideologia, e da una cultura politica (mai veramente sconfitta, nella storia del nostro paese) che lega insieme particolarismo e scarso senso civico, nella società civile, e “miopia” politica, nel governo delle istituzioni (ossia, letteralmente, una politica che non sa guardare lontano e non si pone nemmeno il problema). Tutto ciò è oggi aggravato dalla progressiva scomparsa di anticorpi, o di “corpi intermedi”, in grado di introdurre nella sfera pubblica qualche elemento di razionalità e lungimiranza. L’opinione pubblica italiana è “invertebrata”, esposta alle più svariate ondate, volatile e fragile, piena di sospetti e di risentimenti. E, quel che è più grave, la politica insegue questo magma, cerca di adeguarvisi o di sfruttarlo, ben raramente cerca di contrastarlo. Ed è facile quindi innestare un tipico “ciclo” di entusiasmo e delusioni, di attese e disillusioni. Su questo, il PD di Renzi rischia moltissimo.
Per questo, credo che il solo terreno su cui il PD possa sperare di consolidare questa massa magmatica di consensi sia quello di lavorare seriamente a ri-costruire un “partito”, e un partito degno di questo nome. Ma, proprio su questo terreno, mi sembra che non solo ci sia molto lavoro da fare, ma anche che le idee che sembrano prevalere all’interno del PD non siano affatto consapevoli di quali possano essere le risposte giuste. Non solo: sotto l’ombrello di un “leader vincente” si vive spesso alla giornata, non si riflette su cosa possa e debba essere questo PD (che giustamente Ilvo Diamanti, chiama “PDR”, il “partito di Renzi”), su quale sia la sua identità politica e culturale, quale “immagine dell’Italia” e della democrazia ne ispira l’azione.
E, soprattutto, quale sia il modo di intendere la “democrazia interna”, il modo di lavorare e di decidere, di questo partito: prevale una interpretazione plebiscitaria della democrazia. Ma davvero gli elettori delle primarie, e gli elettori del 25 maggio, hanno dato una “delega in bianco” per quella specifica riforma del Senato? E’ semplicemente aberrante interpretare in questo modo il rapporto tra il leader e la “folla”. Nel PD, in realtà, si discute poco e si decide male: non basta affidarsi al mero ruolo di ratifica di organi dirigenti che, in realtà, sono stati eletti come diretta dependance del leader, e poi appellarsi alla disciplina di maggioranza.
Nessuno mette in dubbio il fatto che, ad un certo punto, una discussione debba sfociare in una decisione: ma chi, e come, ha potuto veramente discutere quella scelta? Si è costruito un processo di dialogo veramente inclusivo, che permetta a tutti - anche a chi non si riconoscerà nella scelta finale - di poter dire: “sì, non sono d’accordo, ma ho contribuito alla discussione, e di quel che ho detto si è tenuto conto”?
Se il PD non affronta questi nodi, non riuscirà ad essere veramente una “casa comune”, in cui tutti possano veramente riconoscersi: e sarà ben difficile costruire un legame un po’ più solido con la società italiana, con le diverse tradizioni di cultura politica che la compongono. Se non si farà questo, si potrà sperare solo sulla “tenuta” del traino personale del leader: ma in presenza di questa “volatilità” questi tipi di leadership sono estremamente vulnerabili e possono improvvisamente rivelarsi molto deboli. E’ vero che viviamo in un’epoca di personalizzazione della leadership, ma “personale” non vuol dire “solitaria”.

Infine, alcune considerazioni sul voto in Toscana: e qui c’è da dire che si è fatta tanta, troppa retorica intorno al risultato di Livorno: certo, una città-simbolo, per tanti aspetti, ma occorre pur dire che il PD del 2014 c’entra davvero poco con il PCI e la sua storia. E del resto, quanto a città-simbolo, come non ricordare che già nel 1999 la sinistra aveva “perso” Bologna?
Non è, dunque, su questo terreno che si può analizzare quanto è successo. Guardare indietro può essere suggestivo, ma non ci aiuta a capire cosa accade oggi.
Si continua, con una certa pigrizia intellettuale, a definire la Toscana come una “regione rossa”: ma, se diamo all’espressione un senso rigoroso, il processo di erosione di una tradizionale identità  politico-culturale di matrice socialista e comunista era già in atto da tempo e si è oramai del tutto consumato. Il PD è un’altra cosa: un grande partito-contenitore, che in molte realtà - come mostra il voto toscano - esprime un ceto politico dirigente che gode di larghi consensi; ma che, proprio per questa sua identità “debole”, è anche vulnerabile, esposto agli umori dell’elettorato (anche molto feroci, come a Livorno). Non solo: essendo il PD il partito-pernio dell’intero sistema politico, un partito “centrale” e dominante in un panorama di macerie, si stanno creando dinamiche peculiari: da un lato la competizione, spesso, è tutta e solo interna (e le primarie “sregolate” esaltano questo dato); dall’altro, alle elezioni, quando il giudizio sulle performance di governo è negativo, il concorrente che riesce ad emergere è in grado di catalizzare tutte le più svariate ragioni di insoddisfazione. Un elettorato volatile e privo di ancoraggi ideali non ha remore di sorta: si muove, potremmo dire, “qual piuma al vento”. E anche gli elettori che “si sentono di sinistra” non vivono affatto come un “tradimento”, o con particolare disagio, la sconfitta eventuale del PD: ma questo accade, semplicemente, perché il PD non è più un partito che alimenti un qualche sentimento forte di “appartenenza”.
E’ evidente che questo dato pone molti problemi al PD: su quelli di ordine generale, ci siamo soffermati sopra. Ma tutto ciò pone problemi anche all’azione di governo locale: in questa situazione, sembrano trovarsi a proprio agio tutti coloro che sanno costruire le proprie autonome reti di relazione e sanno coltivarle. Altri, invece, sembrano illudersi di avere ancora un partito “dietro”: ma si ritrovano il vuoto alle spalle. Non c’è più un partito che “media” tra cittadini e istituzioni: bisogna trovare altre forme e altri canali. Anche per le amministrazioni vale quanto detto sopra: una leadership “personale” non vuol dire “solitaria”. E quindi, essere “aperti”, attivare reti di partecipazione e coinvolgimento dei cittadini, tenere i rapporti con il mondo associativo: è questo il terreno su cui si gioca la partita. Ed è qui che il PD ha perso quella di Livorno.

* Antonio Floridia è Responsabile dell'Ufficio e dell'Osservatorio elettorale della Regione Toscana; dal 7 marzo 2014 è Presidente della Società Italiana Studi Elettorali (SISE).


Per saperne di più
- Ministero dell'Interno: Eligendo, il portale delle elezioni
- Comune di Firenze: I risultati delle elezioni europee ed amministrative 2014
- Comune di Livorno: I risultati delle elezioni europee ed amministrative 2014 (1° turno - 2° turno)
- Centro Italiano Studi Elettorali (CISE)
- Istituto Cattaneo

Opinioni ed analisi
Perché i sondaggi hanno fallito, di Luca Ricolfi (27.5.2014)
Renzi, alta fedeltà e nuovi voti a 360°, di Roberto D'Alimonte (28.5.2014)
I risultati elettorali: il PD dalla vocazione all’affermazione maggioritaria, di Nicola Maggini
Renzi e Grillo: chi ha sconfitto il M5S? di Ilvo Diamanti (30.5.2014)
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Ballottaggi: l’affluenza in calo di 20 punti ha ribaltato i risultati, di Roberto D'Alimonte (10.6.2014)
- Elezioni europee 2014, di Gianluca Passarelli
- Elezioni europee 2014, i flussi elettorali in 12 città, di Pasquale Colloca e altri

1 commento:

  1. le riflessioni e gli argomenti portati da Floridia sono, come al solito, interessanti e esposte in maniera assai chiara, cosa non proprio comune in chi scrive di elezioni e risultati elettorali (tanto per far nomi, si leggono volentieri D'Alimonte e Ignazi, gli altri assai meno).
    Mi permetto solo di aggiungere solo due considerazioni, direi quasi due chiose, su due punti, uno sui risultati elettorali e uno sulla lettura politica data da Floridia che, peraltro, condivido in grande parte. Sull'analisi dei flussi: è vero che un passaggio diretto destra-sinistra è stato limitato (e comunqune non nullo come in altre occasioni), ma è anche vero che se l'ultimo voto prima delle europee (ovvero alle politiche del 2013) dei nuovi votanti PD era stato Scelta Civica o l'astensione, il loro penultimo voto era stato, in grande parte, per un partito di centro-destra. in ogni caso si tratta di uno spostamento di voti avvenuto in tre, massimo quattro anni. In passato mi sembra di ricordare che solo la Lista Bonino alle europee del 1999 intaccò in maniera sostanziale e diretta l'elettorato di centro-destra ma fu la classica eccezione che conferma la regola. Questa considerazione, ovviamente, nulla toglie alla conclusione di Floridia circa la ormai forse radicata estrema volatilità del voto (anzi) e sugli effetti non solo positivi di questo fenomeno.
    Quanto all'analisi politica mi sembra importante sottolineare che il contrasto ad ogni deriva plebiscitaria, leaderistica o populista non deve far mai scordare come il sistema Istuzionale e in qualche punto anche quello Costituzionale di questo Paese sia vetusto da tempo e incapace di gestire l'estrema complessità delle società moderne. In sostanza abbiamo un sistema decisionale assai lento e fragile che ha effetti purtroppo assai superiori a quelli che si pensa (basta leggere i giornali economici per rendersene conto) soprattutto sulla gestione delle crisi economiche con effetti sociali devastanti. Quelli che ha evitato la Francia, ad esempio, proprio grazie ad un assetto stabile sempre in grado di definire una leadership. Come mi capita di dire spesso in questo periodo, l'antipolitica, il populismo ed altri fenomeni di questo tipo sono alimentati dalla corruzione, certo, ma nascono dall'incapacità della politica di dare risposte in termini di policy con decisioni e attuazioni veloci. Certo la strada da percorrere non è fatta solo dal superamento del bicameralismo perfetto o da un nuovo sistema elettorale (comunque passaggi necessari); penso anche che il funzionamento della macchina burocratica che, quando va bene, ritarda di un paio d'anni almeno l'attuazione di una nuova norma, abbia il suo peso. Certo è che quando Mineo da di "frettoloso" a Renzi (magari nel caso in specie anche a ragione) contrariamente a quello che pensa gli fa solo una grande pubblicità e dimostra, ahimè ancora una volta, come una certa sinistra, forse nostalgica di riti assemblearistici e/o consociativi, sia lontana dal percepire le esigenze di stabilità e leadeship del Paese. Che ci si chiami Mineo o Turigliatto poco cambia,

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