A cura di: Antongiulio Barbaro, Alessio Bartaloni, Amos Cecchi, Antonio Floridia, Monica Liperini,
Arnaldo Melloni, Eriberto Melloni, Massimo Migani, Mario Primicerio, Simone Siliani



Nessuno è chiamato a scegliere tra essere in Europa e essere nel Mediterraneo,
poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.

Aldo Moro

lunedì 2 dicembre 2013

Il ruolo degli iscritti nei documenti presentati dai candidati alla segreteria PD

di Alessio Bartaloni

La fase cosiddetta “congressuale” che il PD sta vivendo e che, in buona sostanza, si caratterizza per il complesso iter scelto per eleggere il nuovo Segretario, sta suscitando, come logico, molte attenzioni e qualche perplessità. Una di queste riguarda senz’altro il ruolo degli iscritti. La macchinosa scelta compromissoria alla quale si è arrivati per la scelta del successore di Epifani ha previsto infatti solo una prima parte riservata ai possessori della tessera del partito, prima parte con la quale si è alla fine solo ridotto i candidati a tre da i quattro iniziali.  La vera e propria scelta è invece riservata alla platea di tutti coloro che il prossimo 8 dicembre si recheranno ai seggi, siano iscritti, simpatizzanti o semplici passanti. La scelta francamente è un po’ curiosa; non può sfuggire infatti la differenza tra l’elezione di un segretario di partito e la scelta del candidato premier, per sua natura giustamente riservata alla platea più ampia possibile e che quindi a suo tempo fu giustamente allargata anche a chi non possedeva tessere dei partiti della nascente coalizione. Sotto questo punto di vista il fatto che anche le consultazioni per la scelta del segretario del PD in corso in questi giorni siano chiamate “primarie” è un altro elemento che non può che suscitare perplessità.
Una corretta conseguente riflessione dovrebbe forse partire dalla natura giuridica dei partiti e dal ruolo affidato ad essi dalla Costituzione. E’ preferibile (e più modesto) da parte di chi scrive soffermarsi sul ruolo che viene attribuito agli iscritti da parte dei tre aspiranti segretari rimasti in lizza al fine di verificare se la scelta di cui sopra risulti o meno prodromica di sviluppi. Esaminando le uniche fonti attendibili per detto confronto, ovvero i documenti congressuali a suo tempo presentati dai tre candidati rimasti in lizza, l’impressione che si ricava è che, pur nel mezzo di una sostanziale (attesa) vaghezza, nel ruolo che nei singoli documenti si attribuisce agli iscritti si leggono in modo chiaro virtù e difetti più o meno consolidati dei singoli aspiranti Segretari.
Cuperlo viene in genere descritto come di gran lunga il più intellettualmente fine e preparato dei tre;  ma, al contempo, oltre che difettare di leadership, appare ai più troppo legato a vecchie forme di politica (se non anche a personaggi eufemisticamente definibili “datati”) non adattabili ai tempi e quindi, alla fine, inconcludenti. In effetti nel suo documento si compie un’approfondita e culturalmente apprezzabile riflessione sulla storia recente della sinistra italiana e, in apparenza, sembra che il ruolo degli iscritti venga compiutamente riaffermato. Si critica il rischio del laederismo (leadership autorevole è vista come condizione necessaria ma non sufficiente) e la conseguente relegazione del partito a comitato elettorale, fondamenta, a giudizio di Cuperlo, della degenerazione correntizia. Si critica quindi il “riformismo dall’alto” ricercando invece il “senso di adesione attribuendo più peso agli iscritti e promuovendone la formazione” in nome del “principio di democrazia paritaria che resta scolpito e dal quale non si torna indietro”. In sostanza se da un lato si riconosce il valore degli iscritti come “controllo”, presidio della autonomia del partito e addirittura “anticorpi che in questi anni hanno fatto argine ad un idea della politica proprietaria e personale“, dall’altra appaiono riproposti schemi tardo-assemblearistici (il richiamo a Barca e alle ormai famose tesi di questi è illuminante a anche un po’ velleitario) e addirittura da “Partito Nuovo” di togliattiana memoria. Nel sottolineare la necessità di investimento nella formazione degli iscritti si fa infatti fatica a leggere un partito da terzo millennio ma si vedono solo retaggi novecenteschi che appaiono superati da differenti situazioni sociali e di stili di vita. Il messaggio che si ricava è quindi, se non proprio conservativo, certo scarsamente innovativo. Senza considerare che fenomeni come quello della degenerazione correntista o leaderistica è assai discutibile che non possano accompagnarsi ad un partito ravvivato dagli iscritti.
Renzi viene descritto in genere come il più capace fra i tre di un sano e auspicabile pragmatismo anglosassone (e del resto Tony Blair è sicuramente nel Pantheon personale del Sindaco di Firenze). Ma al contempo si osserva che le proposte del “rottamatore” spesso non sembrano avere dietro una seria riflessione intellettuale; le si accusa insomma (quantunque Renzi si affanni nel documento stesso di dire il contrario) di essere “semplicistiche” e non “semplici”, quand’anche non proprio solo slogan (“vota me perché son vuoto” canta non a caso un irresistibile Crozza-Renzi sulla musica di un hit pop anni’80). Molti di questi giudizi sembrano essere confermati nel valutare le proposte di Renzi per il funzionamento della macchina- partito.  La dicotomia vecchio-nuovo è riaffermata non per sostenere chissà quale nuova utopia o anche solo idealità, ma per proporre qualcosa di “normale” contrapposto alla supponenza trascendente della vecchia politica. Sotto questo profilo si tirano in ballo gli iscritti per evidenziarne il calo in funzione anti-classe dirigente attuale più che per rivitalizzarne la presenza. A Renzi interessa il contributo che i “militanti” (parola assai più sovente usata, non a caso) come proposta, oltre che come volontariato, possono dare. A questo proposito fissa in tre momenti – militanti, amministratori, parlamentari- i livelli di consultazione e discussione. Questa puntualizzazione è apprezzabile in quanto, a differenza degli altri documenti, cerca di codificare il contributo del partito alla proposta programmatica evidenziando i tre suddetti soggetti come gruppi di lavoro a sé stanti e paritetici. Non solo, per la prima volta sembra coinvolgere ad una reductio ad unum programmatica il lavoro dei singoli amministratori, spesso isolati nel loro ambito territoriale. Al contempo sembra però prefigurare un funzionamento piramidale del processo tutto a favore del vertice-leaderiship, fatto di per sé legittimo ma che rischia, se non equilibrato da regole consolidate (che almeno per il momento non sono date), di non sopravvivere al leader medesimo.  In poche parole, da una parte senso di concretezza dall’altra esaltazione dell’effimero leaderistico. 
A Civati è riconosciuto di essere figura sicuramente animata da un onesto idealismo capace di rappresentare spesso bene il cuore dell’elettorato; al contempo è indubbio che sia figura legata ad un certo movimentismo da ventennio anti-berlusconiano, capace certo di una apprezzabile opposizione ma assai meno di proposte percorribili. Il passaggio dal cuore alla pancia dell’elettorato in lui sembra ai più oggettivamente troppo breve. Nel suo documento (assai più lungo degli altri due) si fanno proposte senz’altro interessanti in tema di funzionamento della macchina partito; ad esempio l’eliminazione delle fondazioni attualmente esistenti dal sapore meramente correntizio a favore di una sola (sullo schema della SPD) riconosciuta dal partito come vero e proprio “think tank”. Ma tali buoni propositi, a giudizio di chi scrive, finiscono con il cozzare con l’irresistibile fascino che su Civati esercita l’esperienza recente, quando cioè la cosiddetta società civile ha avuto un ruolo certo non secondario nella lotta al berlusconismo. Ecco allora che la “mobilitazione cognitiva” e la “democrazia partecipativa” (di per sé legittime suggestioni)  finiscono col cozzare contro la volontà di una “partecipazione estesa”, che non può cioè “riguardare soltanto gli iscritti ma essere rivolta all’esterno”,  in una confusione in cui perfino i circoli devono essere “centri di elaborazione per iscritti e no”. In sostanza non si vede alcuna distinzione tra partito e piazza, tra sezione e girotondi; se una simbiosi è senz’altro da ricercare, non distinguere fra i due momenti (quello intra-partito e quello esterno ad esso) risulta assai pericoloso quanto le giustamente denunciate derive correntizie. In sostanza quello che emerge è una idealità francamente ingenua e troppo ancorata all’esperienza del recente passato. 
In conclusione se si cercano risposte sul futuro ruolo degli iscritti nel futuro PD non si può dire che all’interno dei documenti se ne trovino di pienamente convincenti. Del resto tutto l’assetto del sistema politico italiano è in questo momento talmente fluido che forse non era nemmeno lecito attendersi chissà quali soluzioni magiche. La scelta della curiosa modalità di elezione del segretario di cui si parlava all’inizio finisce con l’essere quindi figlia del momento storico oltreché del compromesso fra i candidati.
Più o meno lecitamente in questi ultimi anni si è distrutto molto : è ora di ricostruire. Un grande lavoro aspetta il vincitore all’alba del 9 dicembre; di chiarezza prima di tutto.

Nessun commento:

Posta un commento